Tra la surreale querelle dialetto-inglese e la notizia della riapertura al traffico di Piazza Santa Maria di Castello per utenti con difficoltà motorie non certificate (sic), grande è la confusione tra la Bormida e il Tanaro. Se Eco buonanima fosse ancora in vita probabilmente si precipiterebbe ad editare il suo celeberrimo articolo sulla città di Gagliaudo (Pochi Clamori tra la Bormida e il Tanaro ), vergato verso la fine degli anni 60 per segnalare un insperato e insospettabile riflusso di vitalità.
Ma guardiamo oltre. Anzi, stiamo sul punto. Potremmo infatti derubricare i due fatti a piccole scaramucce di provincia, a polemicucce di piccolissimo cabotaggio, e in parte lo sono, intendiamoci, oppure potremmo cercare di leggerci qualcosa di più profondo e sottile, qualcosa che a che fare con quello che siamo e sempre più vorremmo essere come città e come comunità. Prendo in prestito una riflessione condivisa su Facebook da un mio amico, che si domandava se e come i fallimenti individuali potessero diventare occasione di apprendimento collettivo (non solo e non tanto per fare meglio quella determinata cosa, ma per fare meglio altre e più importanti cose).
Personalmente credo proprio di sì. E in quest’ottica ritengo che le recenti intemperanze amministrative dei nostri governanti, e le gaffe che ne conseguono, ci interroghino in verità su come all’alba del secondo decennio del secolo si possano (ancora) assumere decisioni ad impatto collettivo con informazioni sufficienti, con la necessaria compensazione dei diversi interessi in gioco e con la conseguente legittimità sociale.
Una domanda che travalica ovviamente i confini del Tanaro e della Bormida e che incrocia due profonde linee di tendenza del contemporaneo, una di tipo globale e una prettamente locale. La prima ha a che fare con la progressiva incapacità dei partiti politici e più in generale delle tradizionali organizzazioni di secondo livello a rappresentare le istanze e gli interessi presenti nella nostra società, così come erano riusciti bene o male a fare in tutto il corso del 900 (un’inadeguatezza da imputare, in estrema sintesi, alle trasformazioni capitalistiche, al ruolo delle piattaforme digitali, ai cambiamenti demografici); il secondo riguarda, invece, l’incapacità della classe dirigente pubblica e privata che si è succeduta nella stanza dei bottoni negli ultimi 25 anni a prospettare un’idea di città e di territorio, uno scenario di cambiamento attorno al quale coagulare gli interessi, le risorse e le vocazioni di una comunità (di fatto l’ultima idea forte che ha fatto capolino ad Alessandria risale alla fine degli anni ’70 quando si posero le basi per il futuro insediamento dell’Università in città).
In un mondo sempre più interconnesso, imprevedibile e complesso, la capacità di un territorio di rivendicare la propria identità, individuare i propri asset materiali e immateriali e valorizzare l’intelligenza diffusa della propria comunità costituisce una precondizione, un’infrastruttura abilitante potremmo dire, per la crescita e il benessere della stessa.
Se questa è la posta in gioco, e personalmente credo davvero che lo sia, allora occorre cogliere questa occasione per allargare il ragionamento e provare a capire come una città di medie dimensioni con un “solido futuro alle spalle”, possa ancora svolgere un ruolo nello scacchiere territoriale di riferimento, definire un nuovo posizionamento, costruire delle rinnovate basi di convivenza civile (dimenticando tutto quello che c’è di meschino, strumentale e insipiente in queste vicende). Per farlo dovremmo però “imparare a imparare”, dismettere il cinismo e la rassegnazione che da sempre ci contraddistingue e inseguire testardamente il fallimento. Per provare, almeno provare, a dimostrare a Eco che qualche clamore si eleva ancora tra la Bormida e il Tanaro.
Giorgio Baracco