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Massimo Baldini,  Università di Modena

Giorgio Laguzzi , Università di Friburgo

Il recente successo elettorale del M5S ha portato in primo piano (ancor più che in campagna elettorale forse) il tema del cosiddetto “reddito di cittadinanza”. A prescindere dalle questioni inerenti ai vari tatticismi politici a cui si assiste in questi giorni (prevedibili e in certa misura sacrosanti), vorremmo provare ad affrontare il tema con la dovuta serietà, analizzando la proposta del M5S, elencandone quelli che si ritengono i punti critici.

Intanto iniziamo col chiarire che ciò che viene chiamato “reddito di cittadinanza” nella discussione pubblica italiana, per colpa principalmente dell’errata terminologia utilizzata dal M5S, non è realmente un reddito di cittadinanza.

Quest’ultimo infatti, in economia, è definito come un reddito che spetti a qualsiasi persona che goda di un certo requisito di cittadinanza in un determinato territorio, de facto in maniera incondizionata, ovvero a prescindere da altri possibili redditi derivanti da altre attività.

La proposta del M5S rientra invece nella categoria dei cosiddetti “redditi minimi”,

ovvero un sussidio dati a nuclei familiari e persone che versino in stato ritenuto di povertà, molto spesso vincolato ad alcuni doveri civici (disponibilità ad accettare un impiego, assicurare l’educazione scolastica dei figli, offrire servizio al proprio Comune o ad una associazione no profit).

Accenniamo giusto al fatto che in letteratura esiste una vasta gamma di articoli e saggi che analizzano e studiano il rapporto tra reddito minimo e reddito di cittadinanza, ed anche al fatto che quest’ultimo (nel senso proprio del termine) è in fase di sperimentazione in alcuni Paesi, come ad esempio la Finlandia, e in alcuni comuni, come ad esempio Zurigo.

Ovviamente, fatta questa breve introduzione, il nostro compito qui è quello di analizzare schematicamente la proposta del M5S e rilevarne i punti critici, le possibili soluzioni praticabili e vie d’uscita. Per una completa, e abbastanza rapida, disamina sul tema reddito di cittadinanza e redditi minimi, il lettore può consultare [Granaglia-Bolzoni (2016)] o [Toso (2016)]. Speriamo inoltre che queste nostre riflessioni possano essere utili per provare ad uscire dallo scontro eccessivo e fanatico su questo tema, principalmente per un motivo: il numero delle persone che versano in uno stato di povertà ha raggiunto un punto tanto elevato da far ritenere inopportuno che il tema delle manovre del tipo “reddito minimo” venga strumentalizzato eccessivamente.

Alcuni dati sull’Italia e sul resto di Europa

Osserviamo che diverse forme di reddito minimo sono presenti in molti paesi europei (praticamente tutti i Paesi dell’UE a 15, con l’Italia aggiuntasi da poco, e la Grecia ancora in fase di discussione). Esistono molte diversità tra i vari redditi, sia dal punto di vista quantitativo, sia dal punto di vista delle soglie di accesso. Esiste invece una certa omogeneità sui processi di attivazione, ovvero il fatto che il reddito sia legato ad alcuni adempimenti minimali (a cui si faceva riferimento sopra). Stando ai dati Eurostat 2013, in UE le persone in stato di povertà relativa (sotto il 60% del reddito mediano) sono circa il 26% senza considerare i trasferimenti sociali, mentre si riducono al 16% dopo i trasferimenti (10 punti sono una riduzione significativa, che testimonia della generale efficacia dei trasferimenti). In Italia, priva invece di una forma di reddito minimo nel 2013, tali valori erano rispettivamente il 24,5% e il 19,5%, con un impatto pari solo a 5 punti, decisamente più scadente rispetto alla media UE. Sempre i dati Eurostat 2013 evidenziano come l’Italia impieghi solo l’8% della propria spesa sociale alle voci riguardanti l’esclusione sociale (famiglia, disoccupazione, minori, abitazione), ben dieci punti percentuale al di sotto della media UE. La ragione principale della scarsa efficacia dei trasferimenti in Italia nel ridurre la povertà sta nel peso molto elevato delle pensioni, che limitano la spesa per sussidi a sostegno dei carichi familiari e contro la povertà.

A livello europeo inoltre il tema della povertà e delle diseguaglianze sociali ha avuto un particolare rilievo nel progetto Europa2020, ed è stato introdotto anche formalmente in diversi articoli e passi all’interno dei trattati di Lisbona. Tuttavia le aspettative sono state in parte disattese, e si è ancora ben lungi dal riuscire a mettere il tema e la sua risoluzione al centro dell’agenda. Inoltre, sulla base del principio di iniziativa sancito dal trattato di Lisbona stesso, nel 2013 è partita una proposta di raccolta firme a sostegno del basic income, la quale però purtroppo non ha raggiunto quota 1 milione, necessaria per essere presentata in sede di Commissione e di Parlamento Europeo.  

Cos’è il reddito di cittadinanza del M5S

Il reddito di cittadinanza (RDC) proposto dal M5S è un trasferimento monetario destinato a tutte le famiglie con reddito inferiore alla soglia di povertà relativa, definita secondo il criterio Eurostat. Questo criterio prevede che la linea di povertà sia pari al 60% del reddito disponibile equivalente mediano. Nel 2014 per una persona sola la soglia di povertà valeva 780 euro al mese, per una coppia con due figli minori 1638 euro mensili. Questi valori, secondo il disegno di legge presentato dal M5S n. 1148/2013, vanno aggiornati di anno in anno per il tasso di inflazione. Il trasferimento è uguale alla differenza tra soglia di povertà e reddito della famiglia. Quindi una famiglia di 4 persone priva di reddito riceverebbe oggi, considerata la crescita dei prezzi rispetto al 2014, più di 1700 euro al mese. Il beneficiario deve contattare il centro per l’impiego e accettare le proposte di lavoro disponibili. Dopo tre rifiuti perde il sussidio. Il diritto al reddito di cittadinanza spetta fino a quando il bisogno non viene meno.

Cosa non è il RDC

  • Non è un basic income Quest’ultimo infatti, come accennavamo nell’introduzione, spetterebbe a tutti i residenti, non solo ai poveri, a titolo di diritto individuale ad una parte del prodotto nazionale. Il RDC invece andrebbe solo a chi ha reddito inferiore alla soglia di povertà e spetterebbe solo se disponibili ad accettare un lavoro.
  • Non è il reddito di inclusione (REI). Il REI è da qualche mese in vigore e da luglio raggiungerà tutte le famiglie italiane che hanno componente reddituale dell’Isee inferiore a 3000 euro. Il Rei prevede anche la sottoscrizione di un patto di reinserimento a cura dei servizi sociali del comune di residenza. Il REI costa circa 3 miliardi all’anno e (secondo le stime del governo) raggiungerà circa 700mila famiglie. Il target del REI è la povertà assoluta, che è più grave di quella relativa e riguarda meno famiglie (circa 1.4 milioni invece di 4 milioni).

Criticità del RDC

  • Il costo tende ad essere molto elevato. La stima “ufficiale” del M5S è di 15,5 miliardi all’anno, a cui andrebbero però aggiunte altre risorse (circa 2 miliardi) per attrezzare i centri per l’impiego, oggi pochi e con poco personale. La stima di 15.5 miliardi è stata fatta dall’Istat, che però nelle sue simulazioni ha considerato come parte del reddito familiare anche il reddito figurativo derivante dal possesso dell’abitazione. In pratica, se la famiglia possiede la casa, questa dà ad essa un beneficio pari all’affitto che si risparmia. Se questo affitto imputato si aggiunge al reddito disponibile, la distanza tra soglia di povertà e reddito della famiglia si riduce, e diminuisce quindi il RDC. Se però prendiamo alla lettera il disegno di legge, in esso non si parla mai di affitto imputato, quindi la spesa effettiva potrebbe essere più alta e raggiungere i 30 miliardi. Ammettendo che non tutte le famiglie presenteranno domanda, anche perché alcune potrebbero essere vicine alla soglia e quindi ricevere poco, è ragionevole stimare una spesa di almeno 20 miliardi. E’ una cifra che mette seriamente a rischio l’equilibrio dei conti pubblici.
  • La spesa per il RDC sottrae risorse per altri impieghi più produttivi e utili. Quando si stima il costo di una spesa (pubblica o privata) non bisogna considerare solo il suo importo monetario, ma anche cosa si sarebbe potuto fare altrimenti. E’ il concetto di costo opportunità. Va benissimo intervenire contro le situazioni di più seria povertà, ma se vi sono 20 miliardi disponibili (all’anno!), meglio dedicare buona parte di essa ad investimenti che possano offrire opportunità di sviluppo alle regioni meridionali, dove gran parte della spesa del RDC andrebbe. Ad esempio, puntando sulla riqualificazione delle scuole e delle università del Sud.
  • Le coperture non sono sicure. Il M5S ha proposto una lunga serie di possibili fonti da cui raccogliere circa 20 miliardi. Le principali sono la riduzione delle detrazioni Irpef che vanno ai redditi più alti (5 miliardi), la centralizzazione degli acquisti della PA (2.5), l’uso del fondo per il sostegno alla povertà (3), riduzione stipendi parlamentari (0.6), soppressione enti inutili (0.5), riduzione pensioni e taglio dividendi Banca d’Italia (5). Alcune di queste proposte sono molto incerte per non dire impossibili, altre sovrastimate, altre già viste tante volte e fonti di delusioni.
  • Crea problemi di trappola della povertà e incentiva a lavorare in nero. Il sussidio è molto alto e si riduce di 1 euro per ogni euro in più guadagnato. In altre parole, per chi lavora ma guadagna poco è come se vi fosse un’imposta con aliquota del 100%, altamente disincentivante. L’effetto sarebbe di scoraggiare il lavoro poco remunerato o di indurre al lavoro nero. Se la soglia fosse più bassa, questo effetto sarebbe meno forte. In tutti i paesi d’Europa l’importo del trasferimento contro la povertà è sempre molto inferiore alla soglia di povertà relativa, proprio per evitare il problema della trappola della povertà.
  • Richiede centri per l’impiego onnipotenti ed efficientissimi. Le famiglie interessate dal RDC sarebbero almeno 2.5 milioni. E’ impossibile che i centri per l’impiego possano gestire tanti contatti e soprattutto produrre tante realistiche offerte di lavoro. Anche se fossero molto efficienti, non ce la potrebbero fare. Questo significa che la condizionalità resterebbe in gran parte sulla carta. Il RDC si trasformerebbe in un mero trasferimento di reddito senza che il beneficiario debba di fatto rispettare alcuna condizione per ottenerlo.
  • Il vincolo della disponibilità ad accettare i posti di lavoro disponibili sarebbe poco efficace anche perché molti poveri relativi già oggi lavorano. La tipica famiglia in povertà relativa è un nucleo con figli in cui c’è solo un reddito da lavoro di modesto importo. Il partner che non lavora avrebbe molte difficoltà a cominciare a lavorare, sia per la frequente presenza di impegni di cura, sia perché il posto di lavoro dovrebbe essere vicino al luogo di residenza.

Cosa si dovrebbe fare invece del RDC

C’è una semplice e realistica alternativa: potenziare il REI, che è appena partito e sta coinvolgendo una rete di soggetti molto ampia, dai comuni alle scuole, dalla sanità al terzo settore, che stanno imparando a lavorare assieme. Per i passi verso questo potenziamento, si veda la proposta studiata e presentata in [REIS, 2015]. Il REI punta a contrastare la povertà assoluta, che come detto interessa un numero minore di famiglie rispetto al RDC. Le risorse ad esso finora dedicate non sono sufficienti per raggiungerle tutte, quindi occorre aumentarle, tenendo ben presente che comunque per via amministrativa nessun paese riesce ad eliminare la povertà. Una seria valutazione dei risultati del REI permetterà di capire cosa funziona e cosa no, e di migliorare progressivamente lo strumento senza salti nel vuoto. La via del rafforzamento graduale del REI è così semplice e di buon senso che crediamo che il nuovo governo, da chiunque sarà composto, finirà per seguirla.

Considerazioni conclusive generali sul vero e proprio reddito di cittadinanza (basic income)

Qui ci siamo concentrati dunque sulle forme di reddito minimo, analizzando l’idea del M5S e offrendo spunti per possibili soluzioni invece più realizzabili. Riterremmo opportuno come già accennato che manovre del genere possano essere messe al centro dell’agenda per ragioni di priorità economico-sociale. Abbiamo invece trascurato di affrontare gli aspetti del reddito di cittadinanza nella sua più propria accezione tecnica, ovvero il basic income incondizionato. Questa scelta non è dovuta al fatto che si ritenga la cosa di poco interesse, ed anzi molta letteratura esiste a riguardo ed anche alcuni tentativi sperimentali. Tuttavia, seppur il basic income possa essere una misura da prendere in considerazione nei prossimi decenni, oggigiorno riteniamo ancora prematuro parlarne a livello di scelte politiche realizzabili nel breve periodo per ridurre la povertà in Italia e in altri Paesi membri.

Sottolineiamo infine che tali misure, quando declinate sia in termini di basic income incondizionato sia di reddito minimo, aprono anche un tema di riflessione politica e culturale di non poco conto; quello di considerare il diritto a poter avere una vita dignitosa come un diritto imprescindibile del cittadino, affrontando quindi anche dal punto di vista del diritto dell’individuo in uno Stato liberale la questione del reddito di cittadinanza.

REFERENZE

  • Granaglia, M. Bolzoni (2016), Il reddito di base, Ediesse.
  • Alleanza contro la povertà (2015), Il reddito di inclusione sociale (Reis), Il Mulino.
  • Toso (2016), Reddito di cittadinanza. O reddito minimo?, Il Mulino.
Franco Gavio

Dopo il conseguimento della Laurea Magistrale in Scienze Politiche ha lavorato a lungo in diverse PA fino a ricoprire l'incarico di Project Manager Europeo. Appassionato di economia e finanza dal 2023 è Consigliere della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Dal dicembre 2023 Panellist Member del The Economist.

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