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Il The Economist, con l’editoriale di questa settimana, incentrato sull’inaspettato dibattito volto a processare la revisione dell’attuale forma di capitalismo (il fondamentalismo di mercato o detta altrimenti shareholder economy), che da 40 anni impera incontrastata nel quadro delle relazioni economiche-finanziarie internazionali, ci descrive la sua concezione alternativa di capitalismo, suggellandola con una frase dal tenore apologetico: “Questo è il tipo di capitalismo davvero illuminato”.

L’affermazione presuppone che da qualche parte esista l’idea di “un capitalismo illuminato”, perché se lo si evoca nel momento in cui l’intero sistema economico “dondola” sull’orlo dell’abisso, allora ciò significa che gli “illuminati” – tra cui la prestigiosa pubblicazione di St. James Street – oltre a confermare di fatto per circa mezzo secolo la loro debole opposizione all’attuale dottrina prevalente, se non una certa connivenza, oggi ne temano il duro contraccolpo della reazione democratica.

Appropriazione indebita, sottrazione di valore sono variabili che hanno talvolta giocato un ruolo devastante nel cammino spiroidale della storia umana, celandosi sotto la maschera della “dinamica” libertà d’azione individuale, ma soprattutto facendo sì che opinioni, stili di vita, conformi al vantaggio di pochi s’instillassero come valori, o meglio disvalori, rapidamente assorbiti dal consorzio sociale. In aggiunta, si è assistito per lungo tempo alla promulgazione reiterata da parte di governi collusi di regole lasche disegnate specificatamente con lo scopo precipuo di depotenziare diritti sociali, istituzioni statuali, scudi posti a suo tempo con sacrificio a difesa delle volontà collettive (il “No Excuse” di Joseph Stiglitz).

L’enumerazione dagli atti di questo sistematico, ma legalizzato, saccheggio raramente trovò spazio negli occhielli editoriali della “grande” stampa indipendente, ivi compreso il The Economist: dal permissivo buy back azionario, passando per le occasionali “sviste” sul regime regolamentare delle Private Equity e del sistema bancario nel suo complesso, fino alla stesura di timide normative sull’uso di oppioidi, da cui la Big Pharma ottenne stratosferici guadagni pur “camminando” su una lunga striscia di cadaveri.

Sebbene in quadro storico sociale così lontano dalla nostra post-modernità, l’appropriazione indebita e la sottrazione di valore furono le principali cause che determinarono nell’alto medioevo la nascita del sistema feudale, sfruttando la decomposizione dell’allora potere pre-statuale. In modo non molto dissimile, ciò è avvenuto recentemente nella celebrata e ricca sfera occidentale da parte di una minoranza avida e poco lungimirante a dispregio dell’equilibrio sociale e ambientale (short-termism), in altre parole del “bene comune”.

Nelle sabbie mobili in cui ora ci troviamo il The Economist, anziché rammentarci quale insidia ancora più scottante si paleserebbe tra la brace di un temuto ritorno dello “statalismo”, dovrebbe fare un atto di contrizione – e non un sorvolo critico tanto vaporoso quanto tardivo – per tutte le volte che deliberatamente in passato magnificò i cascami gratuiti della globalizzazione e nel contempo ossessionò con la sua retorica liberale, per non dire “liberticida”, coloro i quali si sono sempre opposti all’accettazione di un sistema corrotto e truccato, il quale ha prodotto nelle collettività, in cui il capitalismo mosse i primi passi, dolore e desertificazione sociale.

What companies are for

Competition, not corporatism, is the answer to capitalism’s problems

Aug 22nd 2019

In occidente, il capitalismo non funziona come dovrebbe. Le opportunità di lavoro è abbondante, ma la crescita è lenta, la disuguaglianza è troppo elevata e l’ambiente soffre. Si auspicherebbe che i governi attuino le riforme per far fronte a queste [discrasie], ma la politica in molti luoghi è bloccata o instabile. Chi, quindi, le andrà in soccorso? Un numero crescente di persone pensa che la risposta sia quella di rivolgersi alle grandi imprese per far sì che esse diano un contributo per risolvere i problemi economici e sociali. Perfino i boss americani, notoriamente spietati, su ciò concordano. Questa settimana più di 180 di loro, compresi i capi di Walmart e di JPMorgan Chase, hanno ribaltato tre decenni di ortodossia, impegnandosi affinché lo scopo delle loro aziende non sia più quello di servire esclusivamente i loro proprietari, ma anche i clienti, il personale, i fornitori e le comunità.

I motivi degli AD (Amministratori Delegati) sono in parte tattici. Sperano di prevenire attacchi alle grandi imprese provenienti dalla sinistra del Partito Democratico americano. Ma il cambiamento fa anche parte di uno sconvolgimento negli atteggiamenti verso gli affari che è in atto su entrambe le sponde dell’Atlantico. Il personale più giovane vuole lavorare per aziende che prendano posizione sulle correnti questioni morali e politiche. I politici, nel cui ambito si conteggiano diverse sfumature di pensiero, vogliono che le aziende riportino a casa posti di lavoro e gli investimenti.

Per quanto sia ben intenzionata, questa nuova forma di capitalismo collettivo finirà per fare più male che bene. Rischia di radicare una classe di AD non responsabili e che mancano di legittimità. Ed è una minaccia alla prosperità a lungo termine, che è la condizione fondamentale per il successo del capitalismo.

Da quando le imprese hanno ottenuto una responsabilità limitata in Gran Bretagna e Francia nel XIX° secolo, ci sono state discussioni su ciò che la società può aspettarsi in cambio. Negli anni 50 e 60 l’America e l’Europa sperimentarono il capitalismo manageriale, in conformità del quale le ditte di grandi dimensioni lavoravano con il governo e i sindacati e offrivano ai lavoratori sicurezza di lavoro e gratifiche. Ma dopo la stagnazione degli anni 70, prese piede il riconoscimento di valore agli azionisti (shareholder value), e mentre le aziende cercarono di massimizzare la ricchezza dei loro proprietari , in teoria, in questo modo massimizzarono l’efficienza. Il potere dei sindacati diminuì e il valore per gli azionisti conquistò l’America, da lì in Europa e in Giappone, dove sta ancora guadagnando terreno. Giudicando il cambiamento sulla base dei profitti, si può dire che esso ha trionfato: in America sono passati dal 5% del PIL nel 1989 all’8% attuale.

È questo sistema che è sotto assalto. Parte dell’attacco riguarda un percepito declino dell’etica negli affari, dai banchieri che chiedono bonus e salvataggi in entrambi i casi nello stesso tempo, alla vendita di miliardi di pillole di oppiacei ai tossicodipendenti. Ma la lamentela principale è che il valore per gli azionisti produce risultati economici negativi. Le aziende quotate in borsa sono accusate di un elenco di peccati, dall’ossessione per i guadagni a breve termine alla trascuratezza degli investimenti, allo sfruttamento del personale, alla depressione dei salari e al mancato pagamento delle esternalità catastrofiche che esse creano, in particolare l’inquinamento.

Non tutte queste critiche sono accurate. Gli investimenti in America sono in linea con i livelli storici relativi al PIL, e superiori a quelli degli anni 60. Giudicando dalla quota del suo valore derivato da profitti a lungo termine, l’orizzonte temporale del mercato azionario americano è più lungo che mai. Aziende, il cui dividendo è sempre promesso ma mai distribuito, come Amazon e Netflix sono di gran moda. Tuttavia, alcune critiche sembrano vere. La quota di valore destinata ai lavoratori che le aziende creano è in effetti diminuita. I consumatori spesso ricevono offerte scadenti e la mobilità sociale è precipitata.

Indipendentemente da ciò, la reazione popolare e intellettuale contro il sistema che premia il valore degli azionisti sta già modificando il processo decisionale aziendale. I boss stanno indirizzandosi verso azioni sociali che sono popolari tra i clienti e il personale. Le aziende stanno distribuendo capitali per ragioni diverse dall’efficienza: Microsoft sta finanziando $ 500 milioni di nuove abitazioni a Seattle. Il presidente Donald Trump si vanta esercitando pressioni su dove costruire fabbriche. Alcuni politici si augurano molto di più. Elizabeth Warren, contendente democratica alla Casa Bianca, vuole che le aziende vengano autorizzate a livello federale in modo che, se abusassero nei confronti degli interessi del personale, dei clienti o delle comunità, le loro licenze possano essere revocate. Ciò fa presagire un sistema in cui la grande impresa stabilisce e persegue ampi obiettivi sociali, non il suo ristretto interesse personale.

Il tutto risuona come piacevole, ma il capitalismo collettivo soffre di due insidie: una mancanza di responsabilità e una mancanza di dinamismo. Si consideri innanzitutto la responsabilità. Non è chiaro come gli AD debbano sapere che cosa voglia la “società” dalle loro aziende. È probabile che i politici, i gruppi elettorali e gli AD stessi decideranno il da farsi e che la gente comune di ciò non avrà alcuna voce. Negli ultimi 20 anni l’industria e la finanza sono state dominate da grandi aziende, quindi un piccolo numero di leader non rappresentativi (non eletti) finirà con il potere immenso di fissare obiettivi per la società, la cui estensione andrà ben oltre gli interessi immediati della loro azienda.

Il secondo problema è il dinamismo. Il capitalismo collettivo tende a evitare il cambiamento. In un sistema dinamico le aziende devono abbandonare almeno alcune attori sociali (stakeholder): un loro numero deve ridursi per riallocare capitale e lavoratori dalle industrie obsolete a quelle nuove. Se, per esempio, i cambiamenti climatici devono essere affrontati, le compagnie petrolifere dovranno affrontare enormi tagli di posti di lavoro. I fautori delle giganti aziende dell’era manageriale negli anni 60 dimenticano spesso che AT&T derubò i consumatori e che la General Motors fabbricò auto obsolete e non sicure. Entrambe le aziende incorporarono valori sociali che, anche a quel tempo, erano molto forti. Furono in parte protette perché raggiunsero obiettivi sociali più ampi, che fossero posti di lavoro a vita, scienza di livello mondiale o sostegno al tessuto di Detroit.

Il modo per far funzionare meglio il capitalismo per tutti non è limitare la responsabilità e il dinamismo, ma migliorarli entrambi. Ciò richiede che lo scopo delle aziende sia fissato dai proprietari, non dai dirigenti o dagli attivisti. Alcuni potrebbero essere ossessionati dagli obiettivi a breve termine e dai risultati trimestrali, ma di solito ciò è dovuto al fatto che sono gestiti male. Alcuni possono selezionare obiettivi di beneficenza e buona fortuna a loro. Ma la maggior parte dei proprietari e delle aziende opterà per massimizzare il valore a lungo termine, poiché si tratta di buoni affari.

Richiede inoltre alle aziende che si adattino alle mutevoli preferenze della società. Se i consumatori desiderano acquistare un caffè del commercio equo e solidale, dovrebbero farlo. Se i laureati evitano le aziende non etiche, i datori di lavoro dovranno conformarsi. Un buon modo per rendere le aziende più reattive e responsabili sarebbe quello di ampliare la proprietà. La percentuale di famiglie americane con esposizione sul mercato azionario (direttamente o indirettamente tramite fondi) è solo del 50% e le partecipazioni sono fortemente distorte a vantaggio delle classi affluenti. Il sistema fiscale dovrebbe incoraggiare una maggiore partecipazione azionaria. I beneficiari finali dei regimi pensionistici e dei fondi d’investimento dovrebbero poter votare alle elezioni nei consigli d’amministrazionedelle società; questo potere non dovrebbe essere esternalizzato a pochi baroni nel settore della gestione patrimoniale.

La responsabilità funziona solo in presenza di concorrenza. Ciò abbassa i prezzi, aumenta la produttività e garantisce che le imprese non possano sostenere a lungo profitti anormalmente elevati. Inoltre, incoraggia le aziende ad anticipare le mutevoli preferenze dei clienti, lavoratori e autorità di regolamentazione, per paura che un rivale le anticipi.

Sfortunatamente, dagli anni 90 (in poi), il consolidamento ha lasciato i due terzi delle industrie in America più concentrate. L’economia digitale, nel frattempo, sembra tendere al monopolio. Se i profitti fossero a livelli storicamente normali e i lavoratori del settore privato ne beneficiassero, i salari sarebbero aumentati del 6%. Se si dà un’occhiata all’elenco dei 180 AD firmatari americani di questa settimana, molti sono a capo di settori che esercitano pratiche oligopoliste, tra cui le carte di credito, la tv via cavo, la vendita al dettaglio di medicinali e le compagnie aeree, i quali sovraccaricano i consumatori e hanno una reputazione spaventosa per quanto riguarda l’offerta del servizio ai clienti. Non sorprende che nessuno sia interessato a ridurre le barriere all’ingresso.

Ovviamente, un’economia sana e competitiva richiede un governo efficace: che faccia rispettare le regole antitrust, che sradichi la corrente eccessiva attività di lobbying e di clientelismo, al fine d’affrontare i cambiamenti climatici. Quella politica ben funzionante non esiste oggi, ma dare ai capi delle grandi imprese la possibilità di agire come se fossero una sorta di utile rimpiazzo non è la risposta. Il mondo occidentale ha bisogno d’innovazione, proprietà ampiamente diffusa e diverse aziende che si adattano rapidamente alle esigenze della società. Questo è il tipo di capitalismo davvero illuminato.

https://www.economist.com/leaders/2019/08/22/what-companies-are-for

 

Franco Gavio

Dopo il conseguimento della Laurea Magistrale in Scienze Politiche ha lavorato a lungo in diverse PA fino a ricoprire l'incarico di Project Manager Europeo. Appassionato di economia e finanza dal 2023 è Consigliere della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Dal dicembre 2023 Panellist Member del The Economist.

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