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Quando si parla di acciaio in Italia, la mente corre istintivamente a colossi produttivi in difficoltà, a forni spenti, a battaglie politiche e sindacali. È un riflesso condizionato, assolutamente legittimo, ma che rischia di dare per scontato il quadro generale in cui ci si muove: dallo scenario globale a quello continentale, fino a stringere il focus sul quadro locale. 

Per guardare al futuro di questo materiale antico, universalmente simbolo di potenza economica e industriale, dobbiamo necessariamente alzare lo sguardo oltre i nostri confini e leggere la nuova cartina della geoeconomia globale. 

Il settore siderurgico mondiale sta vivendo una delle fasi più complesse della sua storia, in cui riecheggiano dinamiche che richiamano alla memoria la profonda crisi strutturale degli anni ’70. Allora, come oggi, la congiunzione di costi energetici in rapida ascesa – trainati in quel momento dalle crisi petrolifere – e una domanda fiacca, strozzata dalla stagflazione, aveva messo in ginocchio il comparto. Quel trauma storico ha innescato effetti di lungo periodo ancora perfettamente visibili nel 2025. Il più evidente è stato il progressivo spostamento dei centri produttivi: al ridimensionamento della capacità europea ha corrisposto l’ascesa delle industrie pesanti asiatiche, in particolare quelle cinesi. Qui emerge il primo, fondamentale elemento di autocritica: all’alba degli anni ’90 l’Occidente ha sottovalutato il progetto strategico della Cina, illudendosi che Pechino si sarebbe limitato a recitare il ruolo di “fabbrica del mondo” a basso costo. Invece l’impero burocratico celeste ha avviato un massiccio investimento non solo nel manifatturiero avanzato, nei servizi e nella cantieristica navale, ma – in un’ottica di integrazione verticale – ha anche costruito un apparato siderurgico di dimensioni inedite. 

Oggi la Cina produce da sola più acciaio di tutto il resto del mondo messo insieme. Ma dove finisce questa montagna di materiale? Fino a ieri, il mercato interno assorbiva la maggior parte della produzione, alimentato da colossali programmi infrastrutturali e dal boom edilizio che ha accompagnato l’urbanizzazione di massa. Ora quel modello mostra la corda: la domanda interna è crollata dal picco di 1.050,8 milioni di tonnellate (Mt) del 2020 agli 909 Mt del 2024. Tuttavia, la produzione è calata solo di 60 Mt, creando un gap di 142 Mt tra quanto prodotto e quanto assorbito localmente. Il risultato è un fiume in piena di acciaio che cerca sbocco oltre i confini nazionali: le esportazioni cinesi sono più che raddoppiate dal 2020, toccando il record storico di 118,2 Mt nel 2024. Per comprendere la portata del fenomeno, basti pensare che è come se la Cina esportasse in un solo anno l’intera produzione siderurgica della Germania. 

Ad aggravare la situazione interviene il meccanismo dei prezzi, dove si registra un preoccupante disaccoppiamento tra costo di produzione e prezzo di vendita. L’acciaio cinese che arriva sui mercati europei e americani viene offerto a quotazioni sostanzialmente inferiori a quello prodotto localmente. Le imprese manifatturiere, in assenza di barriere commerciali, sono naturalmente portate ad acquistare il materiale importato per massimizzare i margini. Come è possibile questa concorrenza? La risposta sta nella massiccia distorsione del mercato operata attraverso i sussidi statali: prestiti agevolati, contributi a fondo perduto, sgravi fiscali e fornitura di energia elettrica a prezzi artificialmente ribassati. Il tasso di sussidiazione cinese (sussidi in percentuale sui ricavi) risulta dieci volte superiore a quello dei paesi OCSE. 

Tutto questo ha un effetto depressivo immediato sui prezzi globali, rendendo non redditizia la produzione in tutte le altre regioni del mondo – una situazione ulteriormente aggravata dalla fiacca domanda globale che cresce a un ritmo dello 0,7% annuo. 

Da questa analisi emerge con chiarezza come nel settore siderurgico si stiano scontrando due modelli economici antitetici. Da un lato il capitalismo di stato cinese, dall’altro il modello market-oriented europeo. Il problema è che il primo sta mettendo in crisi il secondo, limitando la capacità di investimento delle imprese europee che faticano a generare i capitali necessari non solo per la continuità aziendale, ma soprattutto per gli ingenti investimenti richiesti dalla transizione ecologica. Quest’ultima implica la progressiva dismissione degli altiforni alimentati a coke e la conversione verso i forni elettrici, un passaggio tecnologico che richiede risorse consistenti. Nel breve periodo, date queste condizioni, non dobbiamo stupirci se la reazione di Europa e Stati Uniti sarà difensiva tramite l’implementazione di misure di protezione commerciale.

In questo contesto globale si inserisce la complessa vicenda del settore siderurgico italiano dove, accanto a realtà passate in mani private, sopravvive a fatica il nodo strategico rappresentato dall’ex-ILVA. La vastità dello stabilimento, un tempo punto di forza, oggi rischia di diventare un handicap in un mercato saturo di acciaio comune a basso costo. 

La via d’uscita potrebbe risiedere in un duplice cambiamento: ecologico e di prodotto. Poiché risulta sempre più complesso competere sulle commodity, la strategia potrebbe essere quella di puntare su prodotti di nicchia e ad altissimo valore aggiunto: acciai speciali per l’idrogeno, leghe per l’eolico offshore, laminati per l’industria aerospaziale e automotive di precisione. Questa riconversione risulterebbe strategica anche per altri obiettivi di transizione ecologica come lo sviluppo di filiere dell’idrogeno che permettano di accorciare le catene del valore.  Questo percorso richiede di abbinare agli investimenti in impianti un altrettanto cruciale investimento in centri di ricerca e competenza sul territorio. Potremmo mutuare alcuni elementi dal modello cinese dei distretti produttivi integrati con università e centri di ricerca, superando così il mismatch tra offerta formativa e necessità tecniche delle imprese. 

A livello di policy, si rende necessaria una nuova programmazione della politica industriale che coordini gli interventi pubblici e privati e che riesca ad attirare i capitali pazienti necessari in contesti industriali di lungo termine. La sfida non è più competere sul costo della tonnellata di acciaio generico, ma offrire alle industrie europee un materiale a bassa “carbon footprint” – un requisito sempre più vincolante per accedere alle commesse, specialmente se sostenuto da una normativa europea coerente.  La produzione dovrà quindi necessariamente essere progressivamente elettrificata, con particolare attenzione agli impianti “H2-ready”, progettati per passare all’alimentazione a idrogeno verde non appena questa diventi disponibile e competitiva. In questo scenario, un sito come l’ex-ILVA potrebbe trasformarsi in laboratorio della transizione, dimostrando che il futuro dell’acciaio europeo non sta nella quantità, ma nella qualità, nella sostenibilità e nell’innovazione. Inoltre, la riconversione non deve guardare solo ai prodotti finali, ma anche alle materie prime. L’Europa è un continente ricco di rottami ferrosi e la disponibilità globale di rottami raddoppierà entro il 2050. Un sito come l’ex-ILVA, data anche la sua posizione logistica privilegiata, potrebbe trasformarsi da grande consumatore di carbone e minerali in un hub europeo dell’economia circolare per l’acciaio diventando centro di raccolta, selezione, certificazione e riciclo di altissima qualità per servire l’intero bacino del Mediterraneo. Questo creerebbe un’ulteriore linea di business, ridurrebbe la dipendenza dalle importazioni di materie prime e abbatterebbe ulteriormente l’impronta di carbonio del prodotto finale. 

La posta in gioco è alta. Di fronte a uno scontro tra modelli industriali (con l’Europa in svantaggio e probabilmente impossibilitata a recuperare terreno), la semplice difesa dell’esistente non è una strategia, ma una resa graduale: l’unica difesa possibile per il nostro acciaio è una trasformazione radicale.  Non si tratta di abbandonare un settore ma di reindirizzarlo con precisione chirurgica verso dove il mercato e la sostenibilità richiedono che sia. 

Gaia Brambilla

Classe 2001, bergamasca di nascita e Alessandrina d'adozione. Biologa di formazione, esplora oggi il legame tra crisi sanitarie e società con una specializzazione in Disaster and Health Crisis Management. La sua passione per la politica e l'economia si esprime attraverso la scrittura per testate locali e nazionali di settore coiniugate con l'esperienza maturata nel campo della comunicazione politica.

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