105.000 paganti a Imola per tre indomiti settantenni che in una sola esibizione nel nostro paese superano il numero di spettatori presenti in un arco mensile nei concerti organizzati per i nostri vari amati performer italici. Ovviamente, si esclude dal conteggio le manifestazioni canore che hanno come interprete Vasco Rossi.
Ho sempre ritenuto che gli AC/DC siano sempre più un fenomeno culturale internazionale di ampia portata sociale molto sottostimato sia dai paludati critici musicali correnti, sia dagli orientatori di costume, nonché dalla politica nel suo complesso. La rabbia, unita al vigore musicale, che trasmette questa band australo-scozzese – un po’ fracassona – affascina e s’invera in una partecipazione massiva che include persone, indifferentemente dal genere, dalle fasce di reddito, dall’anagrafe dei presenti; giovanissimi insieme ad anziani rockettari che si dimenano, inneggiano, cantano, urlano con la corona lucifera cinta in testa.
Decifrare la motivazione che sottende questa marea umana, di cui una metà di anelanti richiedenti di voler partecipare alla session, come di recente a Imola – ma così in tutte le altre esibizioni planetarie – non è riuscita a ottenere il ticket per esserci, a causa dei limiti fisici di spazio della location romagnola, è un compito assai problematico. Un dato che dovrebbe far riflettere e altresì condurre a rivedere le politiche di ascolto nei confronti di una fetta di cittadinanza che si mostra indifferente, se non aliena ai modelli di vita conformisti.
Che gli AC/DC risveglino in “noi” quella natura ferigna (diavolesca) compressa dal vincolo delle convezioni sociali entro cui insoddisfazione, noia, routine giornaliera, disincanto dalla politica, rafforza la tesi che la “rivoluzione” agognata e la “distruzione” del quotidiano può essere percepita solamente nel corso di uno smarrimento di “follia” musicale, senza freni inibitori e in piena libertà “sonora”.
Gli AC/DC svolgono un ruolo “terapeutico” testimoniato dal loro inossidabile e crescente successo, nonostante manifestino un tecnicismo musicale non proprio raffinato, una età assai distante dalle “rotture” giovanili, ma fortemente coinvolgente tale da trascinare palco e fans in una sorta di estasi collettiva. La stampa mondiale – non solo quella di settore – comincia da qualche anno a prenderne atto e porsi dei quesiti che vanno ben al di là della critica musicale.
Un numero pari a 200.000 persone – il doppio dei fortunati partecipanti – rimasti senza biglietto che ambivano vedere il loro concerto imolese, nonché quei milioni di connazionali che si “elettrizzano” giornalmente nell’ascoltare i riff di chitarra di Angus Young (Glasgow, UK, 31.03.55) [foto]; la stridula voce di Brian Francis Johnson, (Duston, UK, 05.10.47) non può passare completamente inosservata in un mondo ove un severo controllo sociale ci impone razionalità, efficienza e buona creanza, la somma di questi spacciateci come ordinari valori di civiltà.
Gli AC/DC, possono risultare “scomodi”, poiché dispiegano il Mr. Hide che è dentro di “noi”: natura feroce, canina, aggressiva, trasgressiva, irreverente, dissacrante. Un rock “che pesta”, in forza del quale esso scolpisce le sue ambiguità di fondo e ne disvela le contraddizioni umane e sociali in un era che definiamo con l’appellativo di “post-modernismo”.
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