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L’Europa non è soltanto bersaglio commerciale della crociata tariffaria di Trump. È anche la vittima designata di una visione geopolitica che considera l’alleanza atlantica un peso e la coesione europea un ostacolo alla supremazia americana.

Tony Kohler

Tony Kholer

Mar 07, 2025

Le politiche tariffarie di Donald Trump, fin dal primo mandato, hanno costituito uno strappo alle regole consolidate del commercio globale, tradendo una visione isolazionista destinata a minare la stessa centralità economica degli Stati Uniti. Queste misure, profondamente intrecciate con la retorica “America First”, sono state riproposte con ancora maggior veemenza nel secondo mandato, a partire dal gennaio 2025, quando il presidente ha annunciato nuove tariffe doganali contro Canada, Messico e Cina, i tre principali partner commerciali degli USA. L’obiettivo dichiarato è difendere la produzione nazionale e ridurre il cronico deficit della bilancia commerciale, ma i costi e le contraddizioni di tale scelta rischiano di danneggiare la stessa industria americana che si voleva proteggere.

Le reazioni di opinione pubblica e analisti economici sono state tutt’altro che univoche. Da un lato, un fronte di sostenitori vede nei dazi un’estrema difesa dei lavoratori americani, che avrebbero pagato un prezzo salato per la delocalizzazione verso paesi a basso costo del lavoro. Dall’altro, cresce il coro critico di chi paventa il pericolo di un’escalation di guerre commerciali, un’impennata dei prezzi interni e un deprezzamento dell’influenza americana sui mercati globali. Non pochi analisti economici sottolineano come il libero scambio, pur con le sue distorsioni, abbia in realtà sostenuto la crescita delle esportazioni USA, mentre la protezione indiscriminata di alcuni settori, senza un piano industriale organico, potrebbe rivelarsi un autogol storico, destinato a incrementare i costi di produzione per le imprese statunitensi e a far fuggire i partner commerciali verso altri lidi.i

Dani Rodrik, uno dei massimi esperti globali di politica industriale e sviluppo, evidenzia come tariffe e barriere doganali, se imposte a casaccio, non garantiscono alcuna rinascita industriale, bensì aumentano i prezzi dei beni intermedi, frenano l’innovazione e non risolvono la vera criticità degli Stati Uniti: l’assenza di politiche pubbliche volte a rafforzare competitività, formazione e ricerca.ii Ancor più netta la posizione di quanti, incluse figure di spicco del mondo accademico americano, bollano la politica di Trump come una “crociata autolesionistica” in cui, invece di trattare con i partner per migliorare accordi commerciali già esistenti, si preferisce imboccare la via dell’isolazionismo, finendo per colpire i settori nazionali che dipendono maggiormente dalle importazioni di materie prime strategiche.

L’impasse economica interna: dollaro forte, export debole

Una delle principali critiche a queste misure riguarda la contraddizione tra l’obiettivo di ridurre il deficit commerciale e la necessità di mantenere il dollaro come valuta di riferimento globale. Nel momento in cui un Paese emette la moneta di riferimento mondiale, deve garantire ai mercati internazionali costante liquidità, alimentata anche da deficit commerciali o finanziari, secondo il principio noto come dilemma di Triffin.iii Trump, al contrario, invoca una riduzione del deficit, ma in parallelo difende a spada tratta il privilegio egemonico del dollaro, condizione che implica un inevitabile disavanzo esterno.

Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia, sottolinea come un calo serio del deficit richiederebbe una svalutazione della moneta americana, misura che si scontrerebbe con l’interesse strategico di mantenere il dollaro forte e primario nei pagamenti globali.iv A peggiorare la situazione contribuisce la Federal Reserve, la quale, rialzando i tassi, genera un ulteriore rafforzamento del dollaro, riducendo la competitività dei prodotti esportati dagli Stati Uniti.v Ciò che ne deriva è un groviglio di contraddizioni: da un lato, i dazi pretendono di sostenere la produzione interna e di tamponare l’emorragia di posti di lavoro, dall’altro il ruolo preminente del dollaro e il suo apprezzamento colpiscono proprio le imprese americane orientate all’export, fiaccandole in una sfida globale sempre più pressante.

A questo si aggiunge un aspetto paradossale: proprio la guerra commerciale scatenata da Trump – imperniata su tariffe pensate per riequilibrare i rapporti con la Cina e gli altri partner – ha innescato, sin dal 2018, controricadute che hanno coinvolto settori centrali dell’economia a stelle e strisce, come l’agricoltura (depauperata da dazi ritorsivi su soia e mais) e l’automotive (gravata dal rincaro di acciaio e alluminio).vi|vii Nel frattempo, i grandi brand statunitensi impegnati nell’elettronica di consumo sono rimasti esposti a squilibri nelle catene di fornitura globali, innescando un aumento dei costi di produzione e una minor efficienza logistica.viii

L’impatto della dedollarizzazione

Ma le contraddizioni della strategia tariffaria di Trump non si fermano ai confini nazionali. Proprio l’ossessione per il deficit e l’isolazionismo alimentano un processo ancora più insidioso per la leadership americana: la dedollarizzazione perseguita dai cosiddetti BRICS – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – e da altre economie emergenti. Pretendere di ridurre la circolazione di dollari nel sistema globale, tagliando il deficit, significa costringere paesi che importano petrolio e materie prime in valuta statunitense a ridisegnare i propri circuiti finanziari. La strategia di Trump finisce così per accelerare la nascita di accordi commerciali in monete locali, riducendo il campo d’azione del dollaro e indebolendo, in prospettiva, la stessa potenza diplomatica e militare degli Stati Uniti, strettamente legata al ruolo internazionale del biglietto verde.

Se al principio le scaramucce commerciali erano state sminuite come faccende transitorie, la reiterata imposizione di dazi, unita al crescente distacco dagli organismi multilaterali, sta consolidando l’idea, in varie capitali, che sia arrivato il momento di svincolarsi dall’orbita americana. Il risultato finale potrebbe essere una globalizzazione “frammentata” in più blocchi, dove gli Stati Uniti perdono progressivamente centralità e si trovano a dover negoziare da posizioni di minor forza. Questo scenario è ancor più realistico se si tiene conto del consolidarsi di vie alternative, dai nuovi corridoi terrestri e marittimi sino alle piattaforme digitali finanziate da Pechino e Mosca.

Le ricadute globali: partner irritati e filiere compromesse

Anche il rapporto con l’Unione Europea, storico alleato degli Stati Uniti, è sottoposto a forti tensioni. Le frizioni non riguardano solo l’imposizione di tariffe su acciaio e alluminio – peraltro giustificate da Trump con motivazioni di sicurezza nazionale – bensì si estendono a settori strategici come quello automobilistico e agricolo. Se l’Europa è il primo partner commerciale degli USA,ix è anche vero che la convergenza politica e valoriale si è assottigliata, complice il disappunto di diversi governi UE per l’uscita degli Stati Uniti dagli accordi sul clima e per le pressioni esercitate su questioni critiche come i gasdotti.

L’Europa non è soltanto bersaglio commerciale della crociata tariffaria di Trump. È anche la vittima designata di una visione geopolitica che considera l’alleanza atlantica un peso e la coesione europea un ostacolo alla supremazia americana.

Già nel 2022, il sabotaggio dei Nord Stream ha portato il Vecchio Continente a dover dipendere dal gas naturale liquefatto americano, più costoso e soggetto alle fluttuazioni di un mercato instabile. Parallelamente, alcune capitali europee sono stanche delle continue critiche di Trump all’alleanza atlantica e alle spese per la difesa, così come delle mosse unilaterali in politica estera, compresa la proposta di acquistare la Groenlandia, vista come un atto ostile alla sovranità danese. Questa somma di fattori spinge l’UE a ripensare la propria autonomia strategica. L’Unione dovrà valutare se convenga assecondare Washington o cercare accordi bilaterali con altre potenze.

Verso un mondo multipolare?

Nel frattempo, l’equilibrio internazionale sembra muoversi verso il multipolarismo. Se un ritorno al multilateralismo americano potrebbe frenare la frammentazione, gli atteggiamenti di Trump continuano a creare diffidenza anche presso partner tradizionali. Per il momento, la linea della Casa Bianca appare ispirata a un nazionalismo economico che spesso sacrifica pragmatismo, sostenibilità e cooperazione su altari di propaganda elettorale e di calcolo politico a breve termine.x Le conseguenze, però, potrebbero essere durature: una volta che i mercati si ridefiniscono, non è detto che tornino all’orbita dollaro-centrica. E mentre gli Stati Uniti perseguono i dazi, le potenze emergenti affinano la propria rete di scambi regionali, testando canali innovativi di pagamenti in valute locali e investendo in settori chiave della transizione tecnologica.

Alcuni analisti intravedono nell’attuale corsa ai semiconduttori un’anteprima della sfida del futuro: se l’America non saprà dotarsi di una politica industriale articolata, i partner commerciali volteranno le spalle, attratti da chi offre costi minori e condizioni meno aleatorie. E nel caso in cui l’isolazionismo tariffario diventasse permanente, il rischio è che le catene del valore si rimodellino altrove, lasciando indietro gli stessi lavoratori americani che Trump intendeva proteggere.

Conclusioni

La politica dei dazi di Donald Trump, riproposta e rafforzata nel secondo mandato, sintetizza un approccio muscolare e conflittuale che, oltre a danneggiare i rapporti commerciali, rischia di sfasciare gli equilibri che da decenni sostengono la posizione di potere degli Stati Uniti. L’aumento delle tensioni con partner storici e l’impennata dei prezzi interni sono il risultato diretto di una strategia miope, che scambia la propaganda protezionista per politica industriale, condannando gli Stati Uniti all’isolamento e al declino competitivo.

La presunta panacea dei dazi, finalizzata a ridurre il deficit e riportare manifattura e posti di lavoro in patria, si rivela dunque un espediente incapace di cogliere la complessità del commercio mondiale e le dinamiche valutarie internazionali. Senza un piano industriale solido, un serio investimento in formazione e ricerca, e senza adeguati accordi bilaterali o multilaterali, i dazi diventano un’arma spuntata che può rivoltarsi contro chi la brandisce. L’impressione è che il presidente degli Stati Uniti stia cercando di riscrivere le regole a proprio vantaggio, ignorando tuttavia le interconnessioni di un’economia globale ormai proiettata verso nuove costellazioni di potere.

Mentre cerca di proteggere l’America con i dazi, Trump rischia di accelerare il declino della sua influenza globale. Se l’obiettivo era salvaguardare la supremazia americana, il risultato rischia di essere l’inizio della sua erosione, incentivando i concorrenti a elaborare percorsi alternativi e instillando sfiducia nei partner più fedeli. L’Unione Europea, in cerca di una strategia per svincolarsi dallo strapotere di Washington, e i BRICS, più che mai determinati a emanciparsi dal dollaro, potrebbero tracciare vie irreversibili verso un mondo multipolare, dove l’America non detterà più le regole, ma dovrà accettare un ruolo ridimensionato e negoziare, caso per caso, la propria influenza.

Tony Kohler

i Krugman, P. (1996), Pop Internationalism, MIT Press.

ii Rodrik, D. (2017), Straight Talk on Trade: Ideas for a Sane World Economy, Princeton University Press.

iii Triffin, R. (1960), Gold and the Dollar Crisis: The Future of Convertibility, Yale University Press.

iv Stiglitz, J. (2018), Globalization and Its Discontents Revisited, W. W. Norton & Company.

v Nel 2024, la Fed ha incrementato il tasso sui federal funds in diverse occasioni: al 5,00% il 19 settembre, al 4,75% il 7 novembre e al 4,50% il 18 dicembre. (Global-rates.com)

vi Per una panoramica dettagliata dei dazi imposti e delle relative ritorsioni cinesi, con un focus sull’agricoltura, vedi: Peterson Institute for International Economics (PIIE).

vii Bown, C. P., & Crowley, M. A. (2020), US-China Trade War Tariffs: An Up-to-Date Chart, Peterson Institute for International Economics (PIIE). Disponibile su:

https://www.piie.com

. Questo studio fornisce una panoramica dettagliata dei dazi e dei loro effetti sui settori industriali, incluso l’automotive.

viii Bown, C. P. (2021), How the United States Marched the Semiconductor Industry into Its Trade War with China. East Asian Economic Review, 25(1), 3-36. Questo studio analizza gli effetti controproducenti delle tariffe di Trump, in particolare sui settori high-tech.

ix L’UE è il principale partner commerciale degli Stati Uniti con un volume di scambi bilaterali di beni e servizi pari a 1,5 trilioni di euro annui (dati 2023 contenuti nel report della Commissione Europea: “Relazioni commerciali dell’UE con gli Stati Uniti”).

x Autor, D., Dorn, D. & Hanson, G. (2016), The China Shock: Learning from Labor Market Adjustment to Large Changes in Trade, Annual Review of Economics, 8.

 

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