A volte, la storia ci insegna che, quando l’economia fatica a camminare, è la guerra a darle il passo.
Lo sa bene John Maynard Keynes, celebre economista e cancelliere per lo Scacchiere, teorizzando che lo Stato dovesse mettere mano al portafoglio quando l’economia arrancava. Niente attese fiduciose che il mercato si autoregolasse, niente mani legate davanti alle crisi: se il sistema si inceppa, lo Stato deve intervenire, creare lavoro, far girare il denaro. Un’idea che – forse – ha salvato il capitalismo dalla sua stessa autodistruzione.
Ma Keynes non fu il primo a capirlo. Negli anni ’30, mentre il mondo era ancora impantanato nella crisi del ’29, in Germania Hjalmar Schacht, ministro dell’economia nazista, applicava un principio simile. Il Reich non aveva soldi, ma aveva disperato bisogno di far ripartire la produzione e assorbire la disoccupazione. Così stampò moneta, avviò grandi opere pubbliche, costrinse le imprese a reinvestire i profitti e soprattutto, cominciò a riarmare il Paese.
Il risultato? L’economia tedesca tornò a crescere a ritmi vertiginosi, la disoccupazione crollò e il regime si assicurò il consenso popolare. La Germania era tornata potente, ma a che prezzo? Il motore dell’economia tedesca era un mostro insaziabile, che si nutriva di cannoni e divisioni corazzate. L’unico modo per mantenerlo acceso era la guerra.
Così, mentre Keynes immaginava uno Stato che costruiva scuole, ospedali e strade, la storia gli rispose con uno Stato che costruiva carri armati.
Nacque il keynesismo militare: quando tutto il resto fallisce, si fabbricano armi. E il sistema si rimette in moto.
L’esempio più eclatante? Gli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale. Dopo anni di disoccupazione e crisi, la guerra diventò la medicina miracolosa che ridò vita all’economia. Le fabbriche, che un tempo producevano automobili, si misero a sfornare aerei da combattimento, i cantieri navali cominciarono a lavorare senza sosta, e persino le donne e gli afroamericani, fino a quel momento esclusi, furono chiamati a rimboccarsi le maniche. Quando la guerra finì, l’economia americana non solo si era risollevata, ma aveva scalato la vetta, diventando la più potente del mondo.
Lo stesso schema si ripeté durante la Guerra Fredda: il riarmo continuo fu il motore che alimentò decenni di crescita. Gli Stati Uniti e l’URSS si sfidavano a colpi di missili e bilanci miliardari, ma dietro a tutto quel frastuono c’era una realtà più sobria: un’economia che trovava nel conflitto la sua linfa vitale, nell’industria bellica il carburante per crescere senza sosta.
Oggi la situazione è più sottile, ma non meno inquietante. Dopo la pandemia, l’Europa ha riscoperto il concetto di spesa pubblica, con il Next Generation EU che sembrava il trionfo del keynesismo “buono”, quello che investe in digitale, verde e innovazione. Ma poi è arrivata la guerra in Ucraina e, improvvisamente, il riarmo è tornato di moda. La Germania, che per anni aveva quasi dimenticato di avere un esercito, ha stanziato 100 miliardi per la difesa. La Francia ha aumentato il budget militare, così come l’Italia. Gli Stati Uniti hanno superato gli 800 miliardi di dollari di spesa bellica annuale.
La ragione primaria è da ricercarsi nei cicli economici. I cicli economici, nella visione di Keynes, sono come il battito del cuore dell’economia: ci sono fasi in cui tutto sembra andare bene e momenti in cui si rischia il collasso. La soluzione proposta da Keynes, di un intervento statale attraverso la spesa pubblica, nasce proprio da questo concetto: se l’economia rallenta, lo Stato deve iniettare risorse per stimolare la domanda. Siamo in una fase di transizione economica, una di quelle in cui l’Europa cerca di risollevarsi dalle cicatrici lasciate dalla pandemia, ma con il fiato corto. La crescita c’è, ma è timida, appesa a un filo sottile. Se guardiamo al contesto globale, vediamo un mondo che rimbalza, ma non con la forza che ci si aspetterebbe da una vera ripresa. Il ricordo della crisi sanitaria è ancora fresco e, purtroppo, le nuove sfide geopolitiche – guerra in Ucraina su tutte – sembrano essere il carburante di una macchina che fatica a ripartire.
Il keynesismo militare è una scorciatoia, e come tutte le scorciatoie, ha il suo fascino. Funziona, certo: spingere sul pedale della spesa bellica può risollevare l’economia più velocemente di qualsiasi altro investimento. Ma ha anche un effetto collaterale devastante: per giustificare quella spesa serve un nemico, vero o presunto. E quando si inizia a guardare il mondo attraverso il mirino di un fucile, diventa sempre più difficile abbassarlo.
L’Europa si trova oggi a un bivio. Da un lato, c’è la possibilità di investire nel suo futuro, puntando su politiche industriali e tecnologiche che garantiscano una crescita stabile, senza minacciare la pace globale. Dall’altro, c’è il richiamo di un’antica tentazione: utilizzare la guerra come motore dell’economia. Una trappola che, sebbene possa sembrare efficiente, porta sempre con sé il rischio di perdere il controllo.