Le attuali conseguenze di quanto è avvenuto nel sistema economico-sociale internazionale in questi ultimi 40 anni, basato esclusivamente sui disvalori di totale anarchia capitalistico-finanziaria, da tempo travalicano il quadro politico della rappresentanza al punto da seriamente preoccupare anche coloro che in passato furono suoi integerrimi sostenitori. Il rischio che si palesa è quello che si stiano fessurando i principi della democrazia rappresentativa – considerata come la meno dannosa forma di governo possibile – entro cui come una edera perniciosa dirama le sue radici creando appigli per la crescita di un populismo anarcoide con venature conservatrici etnocentriche.
Ciò che le classi dirigenti occidentali – in particolare l’élite politiche – dagli anni 80 in poi, in preda a una frenesia liberalizzante, si rifiutarono di capire fu che il libero mercato dei beni dei servizi e dei capitali, affinché apporti benefici distributivi accettati anche da coloro che si trovano nei piani bassi della scala sociale, necessiti una regolamentazione pubblica (normative che limitino i monopoli, che tutelino una libera competizione, che agiscano scrupolosamente in materia di autorizzazione di brevetti), come presupposto di garanzia e di salvaguardia dei diritti politici e sociali di cittadinanza entro cui esso agisce.
Non basta sventolare ora la sostenibilità e la conseguente paura del collasso terracqueo come strumento per la ricostruzione di un ordine economico se per anni si è preferito forzare la logica del consumo sfrenato elevando a dismisura il debito privato in rapporto al PIL 2020 (France 230% to GDP, UK 160% to GDP, Japan 180% to GDP, Germany 120% to GDP, USA 171% to GDP, Italy 139% to GDP)[1] a discapito di una politica economica che privilegiasse gli investimenti (pubblici e privati). La globalizzazione di per sé non può essere imputata come l’unica colpa di questa lunga serie di malefatte e di fallimenti. L’interscambio di beni, quella delle idee, la compartecipazione comune alla realizzazione di progetti internazionali ha storicamente contribuito a migliorare le relazioni tra i popoli e favorendo nel contempo una crescita complessiva a livello mondiale.
Ciò che non si volle controllare fu il crescente impatto che ebbe la finanza, la quale rappresentò il tratto caratteristico delle economie anglosassoni. Al centro di questa concezione giacque l’idea che l’economia non fosse altro che un insieme di contratti commerciali. La rapida e incauta liberalizzazione della finanza, facilitata dall’avanzamento progressivo dell’IT, comportò a un sbilanciamento dei flussi macro-economici tra oriente e occidente. Al che, finanziarizzazione significò una enorme espansione di questo settore a cui corrispose una moltiplicazione di strumenti di natura complessa, i quali influirono notevolmente sul controllo e sulle poste di bilancio (il presunto valore dell’immaterialità tecnologica[2] a fronte dei reali mezzi propri) degli asset dei produttori operanti nell’economia reale. Tutto ciò non risultò meritorio in termini di sviluppo, produttività e crescita economica. (USA Annualized growth productivity per cent 1920/70 1,9% – 2004/14 0,4%) Source Robert Gordon.
Come si può oggi constatare l’incremento del volume finanziario appare essere stato di gran lunga una veicolo orientato principalmente all’estrazione di valore (rendita) piuttosto che un incremento produttivo globale. La crisi finanziaria del 2007-12 ne diede ampia testimonianza. In conclusione, non è colpa della globalizzazione se oggi il contesto appare così problematico e di difficile soluzione, bensì su come essa fu congegnata, ovvero da un élite dominante avida e ingannatrice (Joe Stiglitz) che ha creato oasi fiscali per i ricchi e forte tassazione interna per i piccoli produttori.
A rendere ancora maggiormente ingarbugliato il tutto lo si deve al fatto che si fecero mancare nei paesi occidentali quelle giuste compensazioni e i necessari re-investimenti nell’economia reale (lavoro), derivanti dai flussi di cassa (outflow) prodotti dai paesi emergenti, che avrebbero garantito nel tempo una distribuita e costante crescita dei livelli di reddito e di occupazione. Ma si fece ancor peggio in Europa. I governi, a causa della loro perenne litigiosità, non misero in campo nessuna politica di allocazione delle risorse in base alla distribuzione della popolazione nei territori, facendo sì che le grandi conurbazioni europee, mediante la loro potente “networking” godessero di gran parte della potenziale offerta d’investimento correlata alla new economy lasciando alle aree periferiche, come la nostra, spogliate dal processo di deindustrializzazione della old economy, in brache di tela, con tassi di reddito medio inferiori del 25% rispetto alle prime (Colin Crouch). Parafrasando Joseph Schumpeter e il suo motto, tanto caro ai liberali del tempo per giustificare il nuovo incipiente ordine, la “creative destruction” si è risolta, almeno qui da noi, in “total destruction”.
A fronte di ciò, quello che una buona politica avrebbe dovuto fare si risolse nell’attuare paradossalmente il contrario. Per un verso si favorì una esclusiva anarchia finanziaria di rapina, (shareholder economy) a vantaggio di “pochi” beneficiari, la cui espansione soffocò fin dal nascere quelle mirabolanti attese di produttività reale sbandierate dai “rivoluzionari” liberisti degli anni 80′; per l’altro verso uno scriteriato incentivo al consumo privato dei “molti” che li ha trascinati nel gorgo di un forzato indebitamento, la cui complicità non esime le principali Banche Centrali d’aver peccato mantenendo per lungo tempo bassi tassi d’interesse.
Famiglie indebitate, lavoro precario non tutelato, modelli di consumo eccessivi, ben al di sotto della produttività reale; riduzione dell’offerta di welfare; una immigrazione incontrollata che supplisce al lavoro di bassa qualifica ma che rivendica diritti di cittadinanza pari agli autoctoni di basso reddito, i quali la intendono come una sottrazione alle loro prerogative di storico diritto; la sciocca austerity tedesca; il Covid; la guerra Russo-Ucraina, sono tutte le componenti di una miscela talmente esplosiva che attualmente permea gli strati medi-inferiori della scala sociale e che li porta a un senso di disgusto, se non di aperta rivolta, rompendo in questo modo il patto fiduciario con le supposte élite “democratiche” di governo (Brexit, Trump, Meloni, Le Pen, Turingia).
Tuttavia, quello che però ci conforta è che finalmente, nel nostro mondo, sebbene con grave ritardo, si sta aprendo finalmente una seria riflessione che coinvolge l’ambito delle forze politiche d’ispirazione liberale e socialdemocratica, in particolare sui marchiani errori commessi nel recente passato.
E’ altresì vero che non basta appellarsi al numero e alla compattezza dei valori democratici per fronteggiare l’approssimarsi dell’onda d’urto; necessita anche un progetto, una nuova formulazione che compendi il rafforzamento di strutture istituzionali di governo e contemporaneamente l’avvio di rinnovati processi di politica economica, nonché una coscienziosa rivisitazione del welfare. Nel programma del Labour Party di Keir Starmer https://ilpontedem.it/2024/07/04/labours-win/ si possono osservare i primi timidi tentativi volti ad applicare nuove metodiche applicative in termini di policies su come gestire e limitare, e possibilmente riformare, l’attuale strapotere di un capitalismo finanziario incontrollato. Ma siamo solo agli esordi e non detto che un possibile recupero possa concretizzarsi in breve tempo scongiurando l’eventuale mito del perfetto risolutore.
fg
[1] The Paradox of Debt, Richard Vague, Forum, USA.
[2] The Market Power of Technology, Mordecai Kurz, Columbia, USA