Poche idee hanno avvelenato le menti di più persone in modo così profondo della nozione di un “libero mercato” esistente da qualche parte nell’universo. Una concezione dogmatica dottrinaria, un bene assoluto, entro cui ogni intromissione del governo è da considerarsi un peccato, un male, “un’assenza di bene”.
In quest’ottica, la retribuzione del singolo riflette semplicemente ciò che egli/ella vale sul mercato. Se essi non sono pagati abbastanza per vivere, il mercato ha deciso che non valgono abbastanza. Se altri guadagnano miliardi, il mercato ritiene che sia giusto così. Se milioni di persone sono disoccupate o non hanno idea di cosa guadagneranno la prossima settimana, anche questo è il risultato delle forze di mercato. Se le aziende decidono di licenziare i propri dipendenti e spostare i posti di lavoro all’estero, o di utilizzare computer e software per fare ciò che facevano i loro lavoratori, è solo il mercato che ne sigilla l’autorità.
Secondo questo assunto, qualunque cosa potremmo fare per ridurre la disuguaglianza o l’insicurezza economica corre il rischio di distorcere il mercato e renderlo meno efficiente.
Sebbene il governo possa aver bisogno d’intervenire occasionalmente nel mercato – per prevenire, ad esempio, l’inquinamento, o luoghi di lavoro non sicuri, o fornire beni pubblici come autostrade o ricerca di base – si ritiene che queste siano eccezioni alla regola generale, operazione per le quali, secondo taluni, il mercato farebbe senz’altro meglio.
L’opinione prevalente è così dominante che ormai è quasi data per scontata. Viene insegnato in quasi tutti i corsi introduttivi di economia. Ha trovato la sua strada nel discorso pubblico quotidiano. Lo si sente esprimere dai politici, purtroppo, di entrambi gli schieramenti.
L’unica questione rimasta da discutere è quanto e in che modo il governo dovrebbe intervenire. I conservatori vogliono un governo più piccolo e meno interventista. I liberali sono più propensi per un governo più attivista che apporti un maggior contributo nel libero mercato.
Ma il punto di vista prevalente, così come il dibattito che ha generato, è completamente falso.
Non può esserci “libero mercato” senza governo. Il cosiddetto “libero mercato” rappresenterebbe tutto ciò che negherebbe il concetto di civiltà: la competizione nella natura selvaggia è una gara per la sopravvivenza in cui solitamente vince il più grande e il più forte. Come ha affermato il filosofo politico del XVII° secolo Thomas Hobbes nel suo libro Leviatano (capitolo 13),
“[in natura] c’è una paura continua e il pericolo di morte violenta; e la vita dell’uomo, solitaria, povera, cattiva, brutale e breve”.
La civiltà, al contrario, è definita da regole. Le regole creano i mercati e i governi generano le regole.
Un mercato – qualsiasi mercato – richiede che il governo stabilisca e applichi le regole del gioco. Nella maggior parte delle democrazie moderne, tali norme emanano da organi legislativi, agenzie amministrative e tribunali.
Il governo non “s’intromette” nel “libero mercato”. Crea il mercato.
Le regole non sono neutre né universali e non sono permanenti. Società diverse in tempi diversi hanno adottato precetti difformi. Le regole rispecchiano in parte l’evoluzione delle norme e dei valori di una società, ma riflettono anche chi nella società ha il maggior potere di crearli o influenzarli.
Tuttavia, l’interminabile dibattito sulla questione se il “libero mercato” sia migliore del “governo” ci rende impossibile esaminare chi esercita questo potere, come trae vantaggio da ciò e se tali regole debbano essere modificate in modo che più persone possano trarne vantaggio.
La dimensione del Governo non è irrilevante, ma le regole su come funziona il mercato hanno un impatto molto maggiore sull’economia e sulla società. Sebbene sia utile discutere su quanto il governo dovrebbe tassare e spendere, regolamentare e sovvenzionare, queste questioni stanno ai margini dell’economia.
Le regole sono l’economia.
È impossibile avere un sistema di mercato senza tali regole e senza le scelte che ne stanno alla base. Coloro che sostengono “meno governo” in realtà rinfiancano un governo diverso, spesso uno che favorisca loro o i loro sostenitori.
La cosiddetta “de-reregolamentazione” del settore finanziario negli Stati Uniti negli anni ’80 e ’90, ad esempio, potrebbe essere descritta più appropriatamente come “ri-regolamentazione”. Ciò non significava meno governo. Significava un diverso insieme di disposizioni normative.
Queste nuovi criteri inizialmente permisero a Wall Street di speculare su un vasto assortimento di scommesse rischiose ma redditizie e permisero alle grandi banche di concedere mutui a persone che non potevano permetterseli.
Quando la bolla scoppiò nel 2008, il governo emanò norme per proteggere gli asset delle banche più grandi, sovvenzionarle in modo che non fallissero e indurle ad acquisire strutture finanziarie più deboli. Allo stesso tempo, il governo impose altre norme che causarono la perdita della casa a milioni di persone. A queste seguirono disposizioni aggiuntive intese a impedire alle banche che intraprendessero rinnovati cicli di comportamenti rischiosi. Sebbene, secondo molti esperti, a oggi, quel nuovo corpus di regole si sta dimostrando fondamentalmente inadeguato. Basti solo pensare la disposizione emanata negli anni ’80 negli USA (presidenza Reagan), mai espunta, e incorporata nel sistema finanziario di marca occidentale che permette il riacquisto di azioni (buy back) che favorisce surrettiziamente, a discapito degli investimenti (lavoro), la rendita finanziaria.
Gli aspetti cruciali a cui prestare attenzione non sono i rari grandi eventi, come il salvataggio di Wall Street stessa nel 2008, ma la continua moltitudine di piccoli cambiamenti nelle regole che alterano continuamente il gioco economico.
Il piano di salvataggio emanato dai vari esecutivi dei quel tempo a tutela del sistema finanziario internazionale creò una garanzia implicita che il governo avrebbe sovvenzionato le banche più grandi se mai si fossero trovate di nuovo nei guai. Ciò fornì a esse un vantaggio finanziario rispetto a quelle più piccole alimentando la loro successiva crescita e il dominio sull’intero settore, il che rafforzò il loro successivo potere politico per ottenere i dettami che volevano ed evitare quelli che non volevano.
Il cosiddetto “libero mercato” è un mito che ci impedisce di esaminare questi cambiamenti di regole e di chiederci a chi servono. Il mito è quindi molto utile a coloro che non vogliono un simile esame e che non desiderano che l’opinione pubblica capisca come viene esercitato il potere e da chi.
Queste realtà sottostanti sono particolarmente ben nascoste in un’economia in cui gran parte di ciò che viene posseduto e scambiato sta diventando intangibile e complesso.
Le regole che governano la proprietà intellettuale, ad esempio, sono più difficili da vedere rispetto alle stesse di un’economia più vecchia in cui la proprietà assumeva le forme tangibili di terra, fabbriche e macchinari.
Allo stesso modo, i monopoli e il potere di mercato erano più chiari ai tempi delle grandi ferrovie e dei trust petroliferi di quanto non lo siano adesso, quando Google, Apple, Facebook, Amazon o Microsoft possono acquisire il dominio su un’intera rete, piattaforma o sistema di comunicazione.
Allo stesso tempo, i contratti erano più semplici da analizzare quando acquirenti e venditori si trovavano più o meno su un piano di parità e potevano facilmente scoprire cosa prometteva l’altra parte. Quello era prima dell’avvento di mutui complessi, contratti di consumo, sistemi di franchising e contratti di lavoro, i cui termini sono ora in gran parte dettati da una delle parti.
Gli obblighi finanziari erano più chiari quando l’attività bancaria era più semplice e i risparmi di alcuni venivano prestati ad altri che volevano acquistare case o avviare un’attività. Nel mondo odierno, caratterizzato da strumenti finanziari elaborati, nella totale inconsapevolezza del 99% della popolazione – ivi compresa gran parte della classe politica dirigente – a volte è difficile dire chi deve cosa, a chi, quando o perché.
fg