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Elly Schlein, durante la manifestazione di apertura della campagna elettorale del PD romano, Roma 6 settembre 2022. ANSA/FABIO FRUSTACI

C’è molta confusione ideologica e strumentalità da parte di una certa critica “moderata” sulla proposta politica di Elly Schlein. Un gran minestrone di “ismi”. Il desueto ritorno al generico riformismo come valore intangibile – senza poi specificarne né i concetti né tantomeno di quale riformismo si parli – contrapposto al solito dispregiato radicalismo, secondo cui, a parere di alcuni, l’attuale appena eletta segretaria del PD ne sarebbe l’interprete.  

Cominciamo a separare il grano dal loglio. Si sappia che la Sinistra Democratica Americana (Left Wing), a cui pare faccia riferimento la Elly Schlein, non è sicuramente quella di J. Corbyn. La seconda è di parziale derivazione luxemburghiana, anti leninista – che è parte della storica tradizione labourista sindacalista britannica (Tony Benn, il cosiddetto socialismo dal basso), ove la lotta di classe consiste nello strumento essenziale senza di cui l’eventuale epilogo utopico marxiano diventa irrealizzabile. La prima invece è di marca demo-liberale (F.D. Roosevelt e J. M. Keynes), secondo cui il capitalismo non è solo insostituibile, come ordine economico, ma è anche necessario e soprattutto compatibile con i valori fondamentali della democrazia liberale (rappresentanza, costituzionalismo, stato di diritto).

Essa non teorizza utopie salvifiche, rimane connessa al pragmatismo e all’empirismo di genesi anglosassone. Senonché, affinché si realizzi un rapporto proficuo tra capitale e lavoro è indispensabile che la “distribuzione” avvenga in modo equilibrato tale da non far emergere increspature sociali, le cui conseguenze possono far deragliare i valori democratici (autoritarismi, pseudo fascismi), ragione per cui è obbligatorio contrapporsi in modo netto nei confronti dell’attuale corrente ortodossa neo-liberista; essa si batte per salvaguardare i principi di concorrenza di mercato facendo sì che non emergano monopoli privati; l’impronta capitalistica deve essere infine “regolata”, da uno Stato “facilitatore” mediante l’attuazione d’investimenti pubblici (ricerca di base) da cui possono trarre vantaggio anche quelli privati (catene di valore), così da impedire che si determino estrazioni di ricchezza verso l’alto (sistema finanziario) a danno di tutte quelle categorie che partecipano alla crescita economica della collettività e che impiegano in essa la propria forza lavoro (interclassismo, non lotta di classe). I lavoratori devono godere di pieni diritti sociali, retribuzioni adeguate, un salario minimo di tutela: il tutto è nell’interesse anche del ceto produttivo, poiché tanto più i redditi mediani crescono, quanto maggiore saranno i fatturati delle imprese e conseguentemente il tasso d’occupazione, riducendo parallelamente le frange di marginalità. L’unico vincolo che i rappresentanti della Sinistra Democratica Americana pongono è l’obbligatorietà alla transizione ecocompatibile. Non c’è in loro nessun afflato palingenetico, ma pura concretezza.

Sul versante dei diritti civili non fanno sconti: lotta acerrima a tutte le discriminazioni, di genere, di sesso e di razza. Tuttavia, questo ambito politico, che potremmo definire “progressista” è giustapposto in modo paritario alla critica verso il quadro socio economico, come dire: connaturato. Ben diversa rispetto all’eccessiva sottolineatura cosmetica con la quale l’attuale socialdemocrazia europea rimarca la priorità dei diritti civili a discapito della questione sociale. Ciò per nascondere la propria pusillanimità, nonché la totale trentennale ignavia, nei confronti del corrente modello neo-liberista.

Il mantra di B. Sanders, E. Warren, R. Reich e la sempre più citata A.O. Cortez (tanto celebrata quanto meno influente rispetto al precedente trio dal punto di vista dell’elaborazione politica) è molto chiaro: finché il capitale finanziario costa di meno (quindi determina una maggiore rendita posizionale a chi lo impiega) rispetto a quello investito nell’economia reale, la crescita sarà solo a vantaggio di una minoranza della popolazione e non sarà mai possibile un’equilibrata distribuzione in base ai meriti e alle capacità dei singoli.

Qui non c’è Lenin o l’ordinuovismo gramsciano e nemmeno il presunto riformismo craxiano, bensì J. M. Keynes degli anni 30 con la sua feroce critica alla rendita; c’è J. Rawls degli anni 70 con la sua teoria sulla giustizia – a meno che non si vogliano considerare l’economista di Cambridge e il filosofo di Baltimora due pericolosi anarco-insurrezionalisti – ma soprattutto c’è del buon senso, poiché non si può continuare a incrementare la disuguaglianza senza pagarne le conseguenze sociali e il distacco dall’élite di governo.

Si leggono tante richiami al principio del “riformismo”, senza spiegare a quale riformismo ci si riferisce. E’ storicamente accertato che ogni riformismo agisce nel seno di una determinata temperie temporale e si proietta al suo interno come elemento di cambiamento. Nel corso di questa cesura paradigmatica che segna il passaggio tra una sorta di quasi mezzo secolo di laissez-faire finanziario globalizzato verso una rivalutazione della funzione dello Stato, il grande compito di una sinistra post-moderna –  si ha l’impressione che la Schlein abbia il talento e il coraggio per questa missione – è quello di ri-interpretare e contestualizzare le esperienze del passato. Poiché, la spirale della storia c’insegna che le sciocche copiature, i modelli prestampati o le solite meline “riformiste” asfissianti, a cui abbiamo miseramente assistito ultimamente, avrebbero sempre di più allontanato il nostro popolo dalle idee per le quali le generazioni precedenti alle nostre hanno versato il proprio sangue.

fg    

Franco Gavio

Dopo il conseguimento della Laurea Magistrale in Scienze Politiche ha lavorato a lungo in diverse PA fino a ricoprire l'incarico di Project Manager Europeo. Appassionato di economia e finanza dal 2023 è Consigliere della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Dal dicembre 2023 Panellist Member del The Economist.

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