di mariano g. santaniello

Sugli schermi di alcuni canali delle tv generaliste italiane in queste settimane viene trasmessa con cadenza regolare una serie prodotta e distribuita dalla Paramount, Yellowstone, con protagonista una star del calibro di Kevin Costner con altri bravi attori statunitensi. La serie televisiva, come spesso accade per i prodotti hollywoodiani, mi pare un prodotto di buona fattura e di grande professionalità. Racconta la saga familiare, ambientata ai giorni nostri, di importanti allevatori di bestiame, i Dutton, proprietari di un vastissimo ranch nel Montana, il più grande dello Stato, continuamente minacciato da immobiliaristi speculatori a caccia di terreni, il rapporto “malato” della ricca famiglia con la politica e il Potere ed il loro perenne conflitto con l’adiacente parco nazionale di Yellowstone e con la locale riserva di nativi americani con tutto il loro portato di rapporti e di complessità sociale .
La ragione di questo mio incipit non è ovviamente la volontà di scrivere una recensione ad una serie tv; non ne ho né le competenze, né le capacità. No, in realtà vorrei utilizzare quanto sopra quale pretesto per evidenziare come anche un prodotto mediatico e spettacolare, con un importante impatto di pubblico mostri in tutta la sua crudezza e violenza il volto e il significato della rendita, esplicitato qui nella sua più aspra e primitiva realtà ovvero la rendita fondiaria. Nella serie non ci sono filtri, tutto è descritto nella sua brutalità e durezza e a raccontare tutto ciò, vorrei ricordarlo, è una storica major hollywoodiana ovvero la rappresentazione plastica del capitalismo più sfrenato e riconoscibile.
Già, la rendita fondiaria, una categoria dei processi socio-economici classici che sottende alle dinamiche di sviluppo e di mutamento, urbano e non, che qui in Italia è invece pressoché scomparsa dall’agenda del dibattito pubblico nazionale dopo un’importante stagione di trasformazioni legislative, amministrative e istituzionali in cui lo Stato – ovvero il potere Pubblico – ha tentato di governarne i processi cercando di ammorbidirne gli aspetti più gravemente speculativi e di rapina[1] . Quella stagione, rimasta nella storia sociale del Paese come il periodo della cosiddetta ”urbanistica riformista”, ha avuto il suo apogeo a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta del secolo scorso ed ha introdotto e prodotto una serie di strumenti amministrativi e istituzionali attraverso i quali il Pubblico poteva competere con gli interessi immobiliari, contrastando le spinte speculative, garantendo sviluppo economico e sociale, introducendo forme di mitigazione tramite standards urbanistici, servizi, risorse fiscali e finanziarie che compensassero l’eccesso di plus valore ottenuto dagli immobiliaristi in un’ottica redistributiva di governo del territorio quale risorsa finita e bene comune.
Sappiamo che dopo quella stagione la “speculazione immobiliare” ha rialzato prepotentemente la testa e, forte della disponibilità di un imponente flusso di risorse finanziarie e di progressivi riposizionamenti e arrendevolezze da parte della controparte politica, ha imposto significative proposte insediative, nuove modalità di rapporti e relazioni tra i diversi portatori di interessi attivando meccanismi di scardinamento del sistema di controllo dei processi amministrativi che, nei fatti, hanno disarticolato le attribuzioni di ruolo ai vari soggetti in campo, rendendo sostanzialmente debole la componente pubblica nel rapporto tra le parti.
Sempre più sovente ci troviamo di fronte a importanti gruppi finanziari ed economici che operano in maniera quasi completamente autonoma e autoreferenziale, attivando progetti e operazioni immobiliari anche di grande rilevanza, senza alcuna attenzione o cura di ciò che il territorio – e gli strumenti urbanistici che lo governano – prevede ed è in grado di sostenere. L’approccio è quasi sempre il medesimo: io, soggetto privato, ho un progetto importante, ho le risorse finanziarie per attuarlo, tutto ciò apporterà “crescita e sviluppo” al territorio, aumenterà significativamente l’occupazione e incrementerà la potenzialità demografica; tu, soggetto pubblico (Comune, Provincia, Regione, Stato), non puoi dire di no…e ti dirò di più, mentre realizzerò ciò che a me interessa, ti asfalto un po’ di strade, ti costruisco un impianto sportivo o un parcheggio, ti pago le luminarie natalizie, ecc… insomma ti compenso il disturbo monetizzando l’invasione di campo. Credo di non dire nulla di incauto nel ricordare che sovente le Amministrazioni pubbliche, che spesso versano in gravi difficoltà per problemi di equilibrio di bilancio, sono indotte a subire queste modalità di rapporto non propriamente eque. D’altronde sulla fiscalità derivante dal governo e dalla gestione del territorio si fondano buona parte della voce “Entrate” del bilancio di un’Amministrazione comunale!
In realtà gli strumenti amministrativi di governo dei processi, l’abbiamo già detto, esistono; bisogna riabituarsi a “governare” appunto questi processi, a superare le ritrosie e i timori. Non bisogna dimenticare che la gestione del territorio e del paesaggio e della loro amministrazione, insomma il “Governo del Territorio ” è un potere costituzionalmente conferito alle amministrazioni locali che devono attuarlo nei modi più attenti e vantaggiosi per tutti perché – è bene ricordarlo – il territorio è un bene finito (il suolo una volta “consumato” non è più convertibile alla naturalità, n.d.r.) ed è un bene comune pubblico.
Mi sento di dire che la vicenda “PAM logistica” che ha segnato significativamente le recenti elezioni amministrative di Alessandria abbia, in maniera quasi paradigmatica, riproposto quanto ho cercato di ricostruire sopra.
L’obiezione sollevata in campagna elettorale dal candidato – risultato poi vincitore nella competizione – credo che abbia colpito nel segno nei suoi contenuti fondamentali ovvero il richiamo alla volontà di dover/poter esercitare chiaramente quelle che sono le prerogative di una pubblica Amministrazione, dialogando e confrontandosi con gli interessi in gioco, ma privilegiando senza remore la tutela dell’ambiente, del paesaggio, della salute dei cittadini, della rete infrastrutturale pubblica, della mobilità e della sicurezza nella sua accezione più ampia. Le ragioni addotte dalla Amministrazione comunale in carica – risultata poi sconfitta – non sembravano sufficientemente forti e credibili ovvero la prospettiva di nuova occupazione e l’individuazione di un’ipotetica centralità della città di Alessandria nel panorama del marketing territoriale della logistica integrata. Questo gli elettori credo l’abbiano compreso ed hanno espresso il loro parere.
Mi auguro quindi che sia giunto quindi il tempo per una rinnovata attenzione del ruolo del Pubblico nei processi e nei meccanismi di governo e gestione del territorio, che si attivi e si realizzi ad iniziare dai centri principali della nostra provincia per diffondersi poi anche nei comuni di più modeste dimensioni. Esistono gli strumenti amministrativi e istituzionali per farlo. È auspicabile che si inneschino processi di cooperazione istituzionale per aumentare la credibilità ed il peso politico e amministrativo della componente pubblica in sede di confronto con gli stakeholders, soggetti che, alla luce dei rilevanti interessi in gioco a seguito degli scenari di sviluppo territoriale venutisi a creare durante gli ultimi tre decenni, svolgono legittimamente il loro ruolo, ma questo dovrà avvenire in maniera equa, in trasparenza e senza prevaricazioni o forzature muscolari.
[1] A tal proposito si manda al contributo fondamentale di G. Campos Venuti in “Amministrare l’urbanistica”, Einaudi, Torino 1967; un testo di parecchi anni fa, ma che è in grado di raccontare e descrivere con schiettezza e linearità i processi, le dinamiche e gli interessi in gioco nella partita urbanistica a livello globale.