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La narrazione fin qui raccontata dalle Banche centrali (FED e BCE) sul potenziale pericolo d’inflazione è piuttosto suggestiva. In un primo momento venne definita “transitoria” (transitory) – la BCE addirittura l’escluse – poi, improvvisamente al cospetto di dati non più eludibili (7,1 % in Usa e 5,1 % nella UE) entrambi i governatori (Powell e Lagarde) dovettero ammettere l’impennata dei prezzi.

Ora, ci chiediamo com’è possibile che gli apparati tecnici di queste due massime autorità economiche, che per compito istituzionale svolgono un’azione di vigilanza e di allarme in merito all’andamento dei prezzi a tutela delle rispettive cittadinanze, abbiano balbettato in modo così dilettantesco? La risposta deve essere cercata nella grande paura che aleggia nel sistema finanziario internazionale per la fine della cosiddetta “free lunch economy” (l’economia dal pasto gratuito) – come l’ha definita acutamente l’economista indiano Raghuram G. Rajan in un suo breve saggio di recente pubblicazione.

Il ritorno alla “normalità” presupporrebbe la cessazione degli stimoli (liquidità trasferiti alle banche commerciali sotto forma di riserve), aumenti programmati del tasso d’interesse, le cui congiunte conseguenze ridurrebbero drasticamente il valore capitale di quella enorme massa di debito contratto in obbligazioni per lo più private – molte ad alto rischio – detenute dai creditori (banche, mutual fund, istituzioni finanziarie, ecc.). Il rischio che si corre è quello del “big crash”.

Quindi, le Banche Centrali, i cui bilanci strabordano di titoli sovrani ma anche privati se non addirittura grandi pacchetti azionari accumulati nel tempo in cambio di copiosa liquidità, sono poste di fronte a un drammatico dilemma: salvare il mercato finanziario o i redditi dei lavoratori erosi dal loro potere d’acquisto?

Ma c’è di più. Qualcuno confidava sulla capacità della struttura produttiva (imprese) d’assorbire il balzo dei prezzi relativizzando i profitti. Parliamo appunto di quella classe politica che per circa trent’anni ha tergiversato sul dovere d’imporre regole (anti trust) affinché non si creassero delle concentrazioni monopolistiche, magnificando la tesi secondo cui il libero mercato avrebbe prodotto autonomamente quegli anticorpi necessari per favorire la concorrenza in regime di massima occupazione.

Spesse volte in cuor nostro ci chiediamo se i banditori di tale ortodossia liberista si siano almeno una volta confrontati con il pensiero di John M. Keynes. Tuttavia, al di là di questo rimando “teorico”, le considerazioni del democrat americano Robert Reich c’induce a pensare che con una inflazione mordace dal lato dell’offerta (materie prime, energia, noli trasoceanici, blocco delle catene di valore), in presenza di un quadro geopolitico poco rassicurante, per le Banche Centrali ritracciare una rotta nella quale la finanza sia al servizio dell’economia reale, non viceversa, come è accaduto in questi ultimi 30 anni, sarà alquanto difficile.

Robert Reich statemen

Tyson Foods, il più grande confezionatore di carne negli Stati Uniti, ha vantato profitti alle stelle nel primo trimestre e valori delle azioni in rialzo grazie ai suoi prezzi aumentati. Tyson Foods, una delle quattro aziende di confezionamento della carne che dominano fino all’85% del settore, ha affermato di aver dovuto incrementare i prezzi l’anno scorso a causa dell’aumento dei costi di manodopera e trasporto e dei colli di bottiglia verificatesi nella catena di approvvigionamento.

Ma le quattro principali società di confezionamento della carne hanno goduto di un aumento del *300%* dei margini di profitto netto durante la pandemia e alla fine dello scorso anno hanno annunciato $ 1 miliardo di nuovi dividendi e il riacquisto di azioni. Questo è in aggiunta agli oltre 3 miliardi di dollari che queste quattro società hanno pagato agli azionisti dall’inizio della pandemia.

Non crediate che l’azienda menti sull’inflazione per un secondo. Più e più volte, le aziende si sono lamentate di dover aumentare i prezzi per tenere conto di un mercato del lavoro ristretto e dei costi in aumento, il tutto mentre registravano profitti record, sborsando milioni agli amministratori delegati e riempiendo le tasche degli azionisti. Come possono farla franca? Ciò è dovuto al fatto che l’economia americana è concentrata nelle mani di pochi colossi corporativi che possono alzare i prezzi impunemente. Se i mercati fossero competitivi, le aziende manterrebbero i prezzi bassi per impedire ai concorrenti di accaparrarsi clienti. Ma poiché l’economia è così concentrata, queste società possono aumentare i prezzi anche se ottengono profitti record: e se la stanno cavando piuttosto bene.

L’oligopolio della lavorazione della carne è solo un esempio. Energia, prodotti farmaceutici, compagnie aeree, banda larga, agricoltura, banche e così via: dagli anni ’80, da quando il governo degli Stati Uniti ebbe quasi del tutto abbandonò l’applicazione delle regole antitrust, due terzi di tutte le industrie americane si sono concentrate. In sintesi, l’inflazione non sta incarnando la maggior parte degli aumenti dei prezzi che in questo momento stiamo vivendo. E’ Il potere delle aziende che li guida. Questo problema strutturale è soggetto a una sola cosa: l’uso aggressivo del diritto antitrust.

Robert Reich

https://www.cnbc.com/2022/02/07/tyson-foods-higher-meat-prices-nearly-doubles-profits-.html?fbclid=IwAR1neNUBWuQ5XBAG3F3h5wPwdlmmxYNmDbfoYMkOmijp3EhpTiZMXWnc9Ok

Franco Gavio

Dopo il conseguimento della Laurea Magistrale in Scienze Politiche ha lavorato a lungo in diverse PA fino a ricoprire l'incarico di Project Manager Europeo. Appassionato di economia e finanza dal 2023 è Consigliere della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Dal dicembre 2023 Panellist Member del The Economist.

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