
A volte ci pare di vivere in un mondo “capovolto”. La storia delle idee ci ha consegnato un pensiero economico “liberal” adeso ai principi della concorrenza; al rifiuto sistematico dell’oligopolio, o peggio, del monopolio; una sì libera circolazione dei capitali ma ordinata secondo i principi dell’interesse nazionale o continentale; una lotta senza quartiere nei confronti della rendita (parassitismo). In questi ultimi quarant’anni nel dibattitto economico la parola “liberal” ha subito uno scivolamento semantico acquisendo un’accezione completamente opposta al suo significato storico.
In questo breve post Anu Bradford – una delle più titolate voci in materia di diritto internazionale – cerca di ricomporre quel campo semantico distorto da quattro decenni di narrazioni improprie e fuorvianti.
A Reckoning for Big Tech?
Dec 4, 2021 ANU BRADFORD
With the European Union, the United States, and China all looking to crack down on Big Tech, the industry is bracing for impact in 2022. Though the showdown will play out differently in each jurisdiction, it is almost certain to lead to a far-reaching new settlement between markets and the state.
NEW YORK – Nell’ambiente geopolitico odierno, i leader mondiali concordano quasi su niente. Ma il controllo della Big Tech sta emergendo come una delle poche idee che tutti possono condividere. Dalla Cina all’Unione Europea e agli Stati Uniti, le autorità pubbliche stanno orientandosi verso leggi antitrust per ridurre il potere di mercato e promuovere economie più eque e competitive. Nell’anno a seguire, vedremo probabilmente una spinta ancora maggiore per un nuovo accordo tra i mercati e lo stato, con le leggi antitrust al centro di questo sforzo e le grandi aziende tecnologiche come obiettivo primario.
La preoccupazione ampiamente condivisa che alimenta questo tendenza è che le Big Tech sono semplicemente diventate troppo grandi.
Per anni, i giganti della tecnologia si sono difese dalle accuse di favorire i propri prodotti nei mercati online in cui operano, di abusare del loro accesso privilegiato ai dati dei consumatori per un guadagno competitivo e infine d’ostacolare la concorrenza acquisendo ogni impresa che minaccia di sfidare la loro posizione di mercato. Queste pratiche lasciano poca scelta ai consumatori, che ora dipendono dai prodotti e dai servizi offerti da una manciata di aziende.
La UE è da tempo all’avanguardia nell’affrontare questi problemi, facendo leva sulle sue leggi antitrust per ridistribuire il potere di mercato e migliorare il benessere dei consumatori. Negli ultimi dieci anni, ha concluso tre indagini antitrust solo contro Google, con una multa di quasi 10 miliardi di dollari. La Commissione Europea sta ora esaminando la tecnologia pubblicitaria di Google e le sue pratiche di raccolta dati, l’App Store di Apple e i sistemi di pagamento mobile, la raccolta dei dati da parte di Facebook e il modello di pubblicità digitale, nonché le pratiche operative di Amazon sul mercato.
Tuttavia, i regolatori della UE vogliono fare ancora di più.
Nel 2020, la Commissione Europea propose il Digital Markets Act (DMA), che cerca di conferirle nuovi poteri per regolamentare i giganti della tecnologia e altre società “gatekeeper” che collegano le aziende agli utenti finali. Il DMA nasce dal riconoscimento che le attuali azioni di contrasto antitrust non hanno reso i mercati digitali più competitivi. Ciò consentirebbe all’UE di vietare completamente una serie di pratiche dei gatekeeper digitali, come l’autopreferenza (self-preferencing) o l’uso dei dati dei concorrenti. La legge sarà probabilmente adottata nel 2022, dopodiché avrà un impatto globale. Attraverso un fenomeno noto come “effetto Bruxelles”, le grandi multinazionali spesso estendono le regole della UE alle loro operazioni a livello globale. Le aziende tecnologiche si stanno già preparando per l’impatto.
Fino a poco tempo fa, gli Stati Uniti stavano osservando in disparte mentre la UE dispiegava le sue leggi antitrust contro le grandi aziende tecnologiche americane. Mentre i tecno-libertari attribuiscono le azioni della UE protezionistiche guidate da un moto d’invidia continentale, i legislatori e le forze dell’ordine statunitensi si stanno ora rendendo conto degli eccessi del settore e si chiedono sempre più se il mercato senza restrizioni stia dando risultati desiderabili.
La Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti ha ripetutamente convocato i leader delle Big Tech a testimoniare prima delle udienze sulle loro pratiche anticoncorrenziali. Nel 2020, il sottocomitato della Camera titolato a svolgere azione di vigilanza in materia di antitrust, e pratiche commerciali e amministrative ha pubblicato un importante rapporto sulla concorrenza nei mercati digitali, chiedendo un rilancio delle leggi antitrust statunitensi. Anche il Dipartimento di Giustizia e la Federal Trade Commission (FTC) stanno entrando in azione, con il DOJ che sfida le pratiche monopolistiche di Google e la FTC che fa causa a Facebook per il fatto d’operare come monopolio illegale. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden è un chiaro sostenitore di questo cambiamento, a tal punto da nominare alle alte posizioni del governo esperti di settore molto severi e noti per la loro posizione ferma in materia di antitrust[1]. Nel luglio 2021, l’amministrazione Biden ha emesso un ambizioso ordine esecutivo su come “Promuovere la concorrenza nell’economia americana”, affermando il suo impegno a combattere le pratiche monopolistiche nel settore delle piattaforme Internet.
Anche la Cina sta attraversando un cambiamento monumentale nel suo approccio all’industria tecnologica. Per molto tempo, il Partito Comunista Cinese mantenne un atteggiamento quiescente nei confronti delle aziende tecnologiche nazionali nel tentativo di favorire la crescita e far progredire il dominio tecnologico della Cina. In cambio di regolamenti lassisti, le principali società si sono sottoposte alle richieste del governo, inclusa l’assistenza al CPC favorendo così la censura online. Ma ora il governo sta rivolgendo sempre più la sua attenzione alle disuguaglianze sociali e alle disparità di ricchezza. E temendo che le Big Tech cinesi stiano diventando più potenti dello stato, la leadership del PCC si sente obbligata a ricordare all’industria chi è che alla fine sta al comando.
Così, nell’aprile 2021, le autorità cinesi hanno colpito il gigante dell’e-commerce Alibaba con una multa di $ 2,8 miliardi per aver impedito ai commercianti di vendere prodotti su piattaforme di e-commerce rivali. Le autorità hanno anche multato il conglomerato tecnologico Tencent, ordinandogli di porre fine ai suoi accordi di licenza musicale esclusivi con etichette discografiche globali, e quindi bloccando il suo tentativo di acquisire i due principali siti di streaming e di videogiochi cinesi, Huya e DouYu. Oltre a queste azioni esecutive, il governo ha redatto nuove norme antitrust rivolte alle società Internet.
Il duello finale
Quello che accadrà dopo è più facile da prevedere nella UE che negli Stati Uniti e in Cina. Dopo la probabile adozione da parte della UE del DMA nel 2022, la Commissione sarà libera di portare avanti le sue numerose indagini antitrust (in assenza di una grave battuta d’arresto nei tribunali europei, che dovrebbero pronunciarsi sui ricorsi di Google contro la Commissione entro il prossimo anno) .
La grande incognita è quanto saranno efficaci le agenzie di regolamentazione statunitensi nel persuadere i tribunali statunitensi a partecipare a una rivoluzione antitrust. L’anno scorso i tribunali americani dimostrarono una tendenza conservatrice e non saranno facilmente convinti dalle argomentazioni secondo cui Facebook e Apple sono monopoli. Resta anche da vedere se un Congresso degli Stati Uniti profondamente diviso può sfruttare il suo risentimento condiviso contro le Big Tech e approvare una legislazione significativa.
Ironia della sorte, la stessa repressione della Cina potrebbe aprire la strada alla riforma dell’antitrust negli Stati Uniti, perché priverà le aziende statunitensi dell’argomento secondo cui il fatto ridurre il loro potere le indebolirebbe contro i loro rivali cinesi. Qui, la domanda non è cosa può fare il CPC cinese, ma piuttosto fino a che punto è il governo disposto ad arrivare. La Cina ha bisogno di una fiorente industria tecnologica se vuole diventare la superpotenza tecnologica globale; ma il governo ha ancora più bisogno di armonia sociale. Allo stato attuale delle cose, il Partito sembra impegnato a garantire che i frutti del successo delle aziende tecnologiche cinesi siano condivisi più ampiamente, in nome della “prosperità comune”. Raggiungere questo equilibrio sarà il compito centrale che i regolatori cinesi dovranno affrontare non solo nel prossimo anno, ma nel prossimo decennio.
Nonostante alcune incertezze, è chiaro che il nuovo blitz normativo riflette un emergente consenso internazionale. Oltre alla UE, agli Stati Uniti e alla Cina, altre grandi economie come Australia, India, Giappone, Russia, Corea del Sud e Regno Unito si stanno muovendo per reprimere l’industria tecnologica.
In questo ambiente, le Big Tech dovranno scegliere che tipo di sfida ingaggiare e procedere con cautela. Ci stiamo dirigendo verso una resa dei conti prolungata tra imprese e governo che avrà implicazioni di vasta portata per tutte le società e nessuna conclusione immediata è in vista.
Anu Bradford, Professor of Law and International Organization at Columbia Law School, is a senior scholar at Columbia Business School’s Jerome A. Chazen Institute for Global Business. She is the author of The Brussels Effect: How the European Union Rules the World.
https://www.project-syndicate.org/onpoint/big-tech-reckoning-eu-us-china-by-anu-bradford-2021-12?utm_source=facebook&utm_medium=organic-social&utm_campaign=page-posts-january22&utm_post-type=link&utm_format=16%3A9&utm_creative=link-image&utm_post-date=2021-12-04&fbclid=IwAR2L3YVYdbJ5WAygmKYeTnADe7xLtUDtopJDd_F-8dyBYySIiR6jyACGorUFine modulo
[1] https://ilponte.home.blog/2021/06/25/the-economist-uk-le-grandi-aziende-tecnologiche-dovrebbero-iniziare-a-preoccuparsi/