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Da un po’ di tempo corre voce che la nostra città entrerà nel presente digitale con tutte le sue mirabolanti opportunità. Sarà finalmente una “smart city” Il tutto sarà “smart”: nuovi edifici “smart” che ridurranno la dispersione energetica e l’emissione della CO2, il traffico e parcheggi saranno “smart”, regolati da uno “smart system”, pure l’illuminazione sarà “smart”, l’istallazione di centinaia di telecamere “smart” controlleranno gli anfratti più nascosti e così godremo tutti noi di una “smart” sicurezza, cassonetti “smart”, magari anche dialoganti con l’utenza, fibre ottiche, cloud computing a iosa. Ci rimarrà solo l’asfalto a dir vero poco “smart” con le sue montagne russe, nonché i marciapiedi rotti e pullulanti di ogni specie di botanica selvatica. Tuttavia, sarebbe eccessivo pretendere che l’amministrazione sia obbligata a “smartizzare” ogni cosa, sarà d’uopo che il cittadino collabori con le sue tasche affinché nasca in lui/lei la vera “autocoscienza “smart”. Vorrà dire che ci doteremo di “smart” bici che percepiranno la sottile striscia percorribile tra le centinaia di buche e di “smart” scarpe che ci pre-avvertiranno di eventuali residui legnosi che incontreremo sul nostro cammino.

Parrebbe che l’Amministrazione leghista si sia dotata di una bacchetta magica che improvvisamente “smartizzi” ogni qual cosa, e ci porti in poco tempo dal mediocre abitué al “futuribile” pétillant.  Un incanto che può avverarsi solo ed esclusivamente evocando quell’anglicismo che manda in sollucchero lo “smart people”: il Project financing.

Brett Christophers  è un bravo emergente economista britannico. Nel 2020 pubblicò un’opera che venne inclusa dal Digital Magazine, dal nome di Project Syndicate[1], nella sua lista dei dieci libri economici dell’anno a cui si consigliava la lettura. Non stiamo parlando di PS come fosse una sorta bollettino parrocchiale o di una conventicola aspiranti al ruolo del Dr Stranamore, ma di una pubblicazione in digitale a pagamento di grande spessore alla quale partecipano premi Nobel dell’economia, ex Primi Ministri, ex Chairman di Banche Centrali, studiosi, accademici e personaggi autorevoli nel campo delle scienze politologiche, finanziare ed economiche. I libri scelti sono sottoposti alla revisione di un comitato scientifico.

Il masterpiece di Brett Christophers racconta nelle sue corpose e analitiche 421 pagine la trasformazione dell’economia britannica dalla fine del pensiero economico collettivizzante labourista al “doloroso” passaggio verso il neoliberismo thatcheriano dei primi anni ‘80, ancora vigente, e con tutte le sue drammatiche conseguenze. Il pregio di quest’opera, ma anche il suo difetto, per altro condiviso dallo stesso autore, è quello che alla lucida e meticolosa critica del sistema di governance pubblica inglese non segue una visione alternativa, una seria proposta al suo superamento. In soldoni, il pur analitico metodo critico nei confronti del rinato fenomeno della rendita non si aggancia a una teoria del cambiamento, così come fece Mariana Mazzucato nel suo “The Value of Everything”.

Tuttavia, “Rentier Capitalism, Who Owns the Economy and Who Pays for it[2], questo è il suo titolo, è un saggio di valore dal quale si possono trarre le linee guida del conservatorismo economico di stampo neoliberista inglese camuffato sotto il paradigma del pensiero liberale.

Nei vari settori economici in cui è articolato il contenuto è possibile trovare riferimenti alla presunta bacchetta magica in possesso dell’amministrazione municipale leghista attualmente in carica, secondo cui le basterebbe invocare la parola fatata Project Financing per  trasformare la nostra “analogica” e dormiente città in una vibrante oasi della digitalizzazione. Si sappia che ogni territorio è geloso del propria formula “abracadabra”, in UK viene chiamata PFI (Private Finance Initiative). Ma, al di là dell’ironia, è giunto il momento di leggere Brett Christophers.

Se la prezzatura monopolistica è stata endemica in ogni luogo dell’UK in materia di “outsourching”, questa la si trova in quel coacervo di contratti con il settore pubblico riuniti insieme sotto l’appellativo di PFI. Introdotto dal governo conservatore nel 1992 il PFI in realtà a partire dal 1997 prese il volo sotto il New Labour. Nei fatti, si tratta di un appalto a cui viene applicato una modifica. Invece d’affidare la costruzione di un bene fisico, per esempio una prigione, un ospedale, a un appaltatore privato e farsi carico dei costi relativi al lavoro e ai materiali che necessitano – di solito presi a prestito – il PFI consente al settore pubblico di differirne il pagamento. I costi capitali sono regolati nel corso della durata del contratto PFI (solitamente di 25 0 30 anni) in base a un periodico pagamento che includa tutti i costi del privato (ammortamento capitali, costi finanziari, di mantenimento e tasse) unitary payments. Benché, quest’ultimo sia da considerarsi un debito per il settore pubblico, ciò viene stralciato dal bilancio, quindi escluso dal calcolo del debito. Questo spiega la ragione del particolare apprezzamento da parte del Treasury (Governo) nei confronti del PFI. L’appaltatore si pone come un Special Purpose Vehicle (SPV) e i pagamenti unitary li riceve dal periodo di validità del contratto che non copre solo i costi capitali ma anche qualsiasi servizio – generalmente in sub-appalto – tra cui la manutenzione, le operazioni di pulizia, l’approvvigionamento, tutte clausole che sono annesse nelle disposizioni contrattuali una volta che l’impianto diventi operativo.

Nel corso di questi ultimi decenni vi sono state molte critiche nei confronti del PFI, la principale riguarda l’alto costo del finanziamento che il pagamento differito implica. Persino i sostenitori di questa forma contrattuale ammettono che il governo può accedere a fondi più convenienti sul mercato dei capitali anziché attraverso il meccanismo dei PFI…

…Ma spesso la durata dei PFI supera i 25 anni, periodo in cui possono diventare dei macigni riducendo così la capacità del pubblico di cambiare l’orientamento delle proprie politiche. Modificare i contratti è tendenzialmente costoso (ove sia persino possibile farlo). Nel caso peggiore, per quanto riguarda i vecchi (quelli firmati prima del 2000), il settore pubblico è intrappolato nel dover onorare gli impegni per opere e relativi servizi che non sono più necessari…Tutto ciò lo si evince dal caso assai noto occorso al Liverpool City Council (consiglio comunale), il quale sovraccaricato dai costi di un PFI pari a £ 4 milioni all’anno fino al 2028 è obbligato a onorarlo per una scuola dismessa nel 2014.

Sennonché in UK – in base alle ricerche fatte dall’autore – il PFI è stato ampiamente contrattualizzato soprattutto nel caso delle Utility (acqua, gas, energia elettrica), che dagli inizi degli anni 80 erano in gran parte di proprietà delle singole municipalizzate o dello stato centrale. Con l’avvento del Governo Conservatore e susseguentemente con la bieca abnegazione del New Labour questi asset sono stati svenduti (al di sotto del loro vero valore patrimoniale) a società private, specificatamente Private Equity, e collocate immediatamente sul FTSE, la Borsa di Londra, ricavandone lauti guadagni.

Ma cosa è successo dopo? Quali conseguenze si sono materializzate, e soprattutto chi ci ha guadagnato?  

…La prima è la cosiddetta “prezzatura monopolistica”. Il settore della fornitura idrica è il più calzante. Nel 2015 il canone di servizio era aumentato in termini reali per una media del 40% da quando il settore fu privatizzato nel 1989. L’incremento maggiore dei prezzi avvenne nel corso del 1990. L’esperienza accumulata in questo settore è più vicina a essere la norma che l’eccezione. Quando Martin Wolf, editorialista del Financial Times, – non proprio noto per il suo orientamento socialista – dichiarò nel 2008 che il modello delle utilities britanniche è “guasto”, una delle sue maggiori critiche del “difettoso” modello fu che “il possesso, la gestione e lo sviluppo si sono rivelati eccessivamente costosi per i consumatori, laddove le infrastrutture pubbliche di base furono trasferite nelle mani d’imprese private”. Così accadde non solo per la fornitura dell’acqua ma anche per tutte le altre: energia nucleare, e reti del gas.

…Il secondo ordine di conseguenze è correlato al primo: il possesso del potere monopolistico tende non solo a incoraggiare la crescita dei prezzi ma anche a indurre una certa indolenza.

…la terza, e di conseguenza, ultima consiste nel fatto che le condizioni di monopolio hanno a lungo permeato il paesaggio inglese con la cosiddetta “rendita proveniente dalle infrastrutture” (infrastructure rentierism), e quindi la creazione di un magnete per gli investimenti da parte delle società finanziarie. Non c’è da meravigliarsi. Anche se molte di queste istituzioni pubblicizzino generici riferimenti e parole accattivanti quando descrivono le loro strategie d’investimento – ben bilanciate, con portfolio diversificati, continui rendimenti, crescita a lungo termine e via discorrendo – capita talvolta che qualche “onesto” birbante si defili e spieghi quello che realmente attrae gli investitori. La risposta è il monopolio. Nient’altro che un monopolio protetto da barriere d’entrata che genera a sua volta prezzi monopolistici e profitto.

La manna degli investitori (i pochi) in UK consiste nella certezza della rendita a lunga scadenza determinata dagli alti profitti delle conglomerate private che appaltano beni e servizi di pubblica utilità utilizzando svariate forme contrattuali. Tra queste vi sono migliaia di project financing, che sebbene siano vigilati da diverse autorità di controllo locali e nazionali al rispetto di norme, a dir vero assai accomodanti, emanate dai precedenti governi Conservative e del New Labour, hanno concorso a determinare uno dei più alti differenziali di polarizzazione del reddito nei paesi OCSE. Sono circa un centinaio a partire dalle più ricche a scendere: SSE, United Utilities, Severn Trent, Centrica, il cui valore di mercato oscilla dai £ 11 miliardi ai poco meno dei £5.

Sulla base della nota citazione di Milton Friedman, secondo cui in economia non c’è nessun pasto gratuito i “pochi” per ingozzarsi nel corso di questi ultimi quattro decenni non hanno fatto altro che rubare le scodelle ai “molti”, i quali hanno dovuto subire la riduzione del personale, dei salari, dei propri diritti, l’annichilimento della funzione sindacale, e con ciò sopportare un astronomico aumento delle tariffe, sbertucciati da un cronico disservizio.

Ma torniamo per chiudere a Brett Christophers,    

…immaginiate che voi gestiate un fondo pensione canadese o un gruppo di private equity e facciate girare il mappamondo attentamente in cerca di qualche investimento in utility per piazzare i vostri risparmi a cui voi badate. Su quale terra poggereste il vostro dito? Più probabile che lo fareste sulla Gran Bretagna. E’ una scelta ovvia. Pochi Stati hanno abbracciato le privatizzazioni di servizi essenziali con così tanto entusiasmo.

E’ vero, nell’Europa continentale, con qualche eccezione, si veda la Lombardia, la resistenza dei governi è stata più salda, forse perché la “sbornia” collettivista inglese durata dal dopoguerra fino a metà degli anni ‘70 è stata evitata grazie a una politica meno ideologica sul fronte dell’offerta pubblica. Purtuttavia, quel conservatorismo neoliberista che si nasconde dietro la maschera del libero mercato come simulacro dell’eterna felicità è sempre “carsicamente” in agguato anche qui da noi, con i suoi specchietti per quelle allodole “moderatamente” socialdemocratiche.

Ciò che deve unire liberali e socialdemocratici è la ferma opposizione a qualsiasi forma di rendita, entro la quale il project financing trova la sua massima espressione sia in termini di asportazione di valore sia in quella di durata. La rendita non altro che un reddito derivante dal possesso o il controllo di beni scarsi in una condizione di limitata se non addirittura in assenza di concorrenza.

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Project_Syndicate

[2] Brett Christophers, Rentier Capitalism, Who Owns the Economy and Who Pays for it, Verso, London UK, 2020

Franco Gavio

Dopo il conseguimento della Laurea Magistrale in Scienze Politiche ha lavorato a lungo in diverse PA fino a ricoprire l'incarico di Project Manager Europeo. Appassionato di economia e finanza dal 2023 è Consigliere della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Dal dicembre 2023 Panellist Member del The Economist.

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