Sarà stata una nostra fortunata intuizione l’aver sottolineato nel corso del 2020 la sensazione che la teorica economica si avvii a salutare il mezzo secolo neoliberista Un fermo immagine che definisce un certo sbigottimento da parte dei suoi adepti, i quali sperano ancora di non affrontare l’impervio percorso che li condurrebbe a piedi scalzi sulla strada per Canossa. Cosi come sono stati troppi i segnali che facevano presagire la svolta paradigmatica (la Slowglobalisation, The Economist), allo stesso modo non possiamo altro che annoverare entro la pattuglia dei devoti “ex mercatisti globalizzanti”, se non proprio dei veri “pentimenti”, orgogliose sfumature sofiste volte solo a celare i loro impietosi ravvedimenti (Olivier Blanchard, Kenneth Rogoff, lo stesso Mario Monti, con la sua sequela di Bocconiani stile anni ’80).
La teorica liberista alla sua radice poggia su un assunto epistemologico in netto contrasto con l’idea di J.M Keynes, secondo il quale le credenze o le aspettative sul futuro possono essere razionali ma altrettanto soggette a delusione, poiché l’avvenire è inconoscibile. La conoscenza delle frequenze passate è un elemento importante nel fornire un giudizio di probabilità, ma non può dare origine a una previsione matematica. Ecco, perché gli investimenti possono crollare: il prezzo corrente dei titoli finanziari o dei beni non contiene tutte le informazioni necessarie per prevedere il loro corso futuro (Stiglitz, asimmetria informativa; Mazzucato, “estrazione”).
Qui, esuliamo dalla banalizzazione Keynesiana sul debito pubblico o sulla sua presunta funzione storica di “mediatore” tra bolscevismo e liberismo (Brancaccio) per addentrarci nella disputa che segnò la contrapposizione tra Keynes e Ramsey negli anni ’20 del secolo scorso, a partire dalla quale si origina la divaricazione concettuale all’interno di una scienza sociale, tale è l’economia, il cui epilogo cristallizza ancora oggi i contrapposti schieramenti.
Al contrario di Keynes, Frank Ramsey, genio matematico e logico inglese, quasi suo coevo a Cambridge – purtroppo scomparso a soli 26 anni per una banale operazione chirurgica – suggerì che man mano che il sapere si accumula – via via che le persone imparano dai propri errori – le probabilità soggettive che si attribuiscono ai possibili risultati diventano uguali alle probabilità oggettive che tali risultati si verifichino. Questa tesi rifugge dall’economia keynesiana per una versione forte della moderna teoria delle aspettative razionali, in cui si afferma che le persone con l’andare del tempo maturino credenze vere sugli eventi futuri. Ciò equivale a dire che non ci potrà mai essere disoccupazione indesiderata. Negli anni ’70, la teoria delle aspettative razionali emerse come un bastone per battere l’economia keynesiana, riportando il pensiero classico alla posizione da cui Keynes l’aveva detronizzato.
Se fosse veramente così bisognerebbe chiederci che cosa imparammo dalla crisi finanziaria del ‘2000, la cosiddetta bolla delle “dot com”, considerato che appena 7 anni dopo il sistema era sul punto di crollare nuovamente. Al tempo, celeberrimi matematici finanziari scongiurarono ogni ipotesi “catastrofica”, asserendo che il collegato indice di probabilità era dato pari a una deviazione standard di 25[1]. Sapete a che cosa equivale questa sottile “coda”? Alla probabilità che si possa trovare un “cigno nero” in un insieme di 10135 di cigni bianchi. Proprio così 10135: un numero immenso, da cui un solo cigno nero, nonostante le assicurazioni dei detentori di quella presunta “verità”, spiccò il volo. Se fosse veramente così quale “aspettativa razionale” avremmo consapevolizzato dopo la Sars 1 in funzione preventiva al covid 19?

A risolcare “l’inconoscibilità” di Keynes e contemporaneamente a confinare il formalismo matematicizzante ci pensarono all’alba del 2020 le due attuali figure britanniche più autorevoli della scienza economica, John Kay (Direttore della prestigiosa LSE) e Mervyn King (ex Chairman della Bank of England), scrivendo a quattro mani un tomo di oltre 500 pagine, Radical Uncertainty. Una sorta di controrivoluzione teorica Keynesiana; un falò “econometrico” che non passò inosservato tra i massimi esponenti internazionali della “grigia scienza”, soprattutto per il prestigio conseguito da quei due quasi ottuagenari attizzatori di roghi matematici; vampe liberatrici intorno alle quali si aggiunsero subitaneamente, in una formazione da “Fabulous Four”, altri due loro coevi non del tutto sconosciuti: il ruvido e schietto scozzese laureato Nobel Angus Deaton e Lord Robert Skidelsky con il suo saggio “The End of Efficiency” (di cui proponiamo un breve sunto).
Il prezzo che abbiamo pagato in Occidente dopo 50 anni di “follia” neoliberista è stato devastante: disuguaglianza, bassi salari, precarizzazione del lavoro, taglio dell’offerta pubblica, riduzione della speranza di vita; l’astiosa moltitudine dei pauperes contrapposta alla lussuosa vanagloria dei potentes, il cui esito si è tradotto nell’evaporazione della classe media. Quel corposo ceto sociale moderno garante del delicato equilibrio sincretico tra liberalismo e socialismo sul quale poggia la più illuminata forma di governo: la democrazia.
The End of Efficiency
Dec 17, 2020 ROBERT SKIDELSKY
Economists have been strangely blind to the need to trade off efficiency for longer-term sustainability, largely because their equilibrium models regard the future as simply an extension of the present. But there is no reason to believe that what is efficient today will be efficient tomorrow and always.
LONDRA – L’economia è lo studio dell’ “economizing”, ovvero l’utilizzo del minor tempo e impegno per produrre la massima soddisfazione. Si è detto che quanto più riusciamo risparmiare sull’uso di risorse scarse, tanto più “efficienti” lo saremo per ottenere ciò che vogliamo. L’efficienza è un obiettivo prezioso perché abbassa letteralmente il costo della vita. La convenienza nell’ottenere i beni e i servizi che desideriamo è quindi la chiave per una vita migliore.
L’efficienza è al centro della teoria del commercio. All’inizio del diciannovesimo secolo, l’economista David Ricardo sosteneva che ogni paese dovrebbe concentrarsi sulla realizzazione di ciò che potrebbe produrre al minor costo relativo. Il defunto economista premio Nobel Paul Samuelson descrisse la teoria di Ricardo del “vantaggio comparato” come la più bella in economia, ugualmente applicabile alla divisione del lavoro tra le persone, imprese e paesi. Essa rimane come la logica teorica alla base della globalizzazione.
L’efficienza è anche il motivo per cui gli economisti si sono preoccupati della produttività del lavoro nelle economie avanzate. Nel Regno Unito, ad esempio, i lavoratori non producono in media oggi una quantità oraria di prodotto superiore a quella del 2007, quindi non c’è stato alcun aumento in termini di efficienza. Ciò significa che il tenore di vita nel Regno Unito è rimasto invariato per 13 anni, il periodo di stagnazione più lungo dall’inizio della rivoluzione industriale. Gli economisti hanno pubblicato centinaia di articoli su riviste scientifiche cercando di spiegare il “rompicapo della produttività”.
Ma la musica si è fatta più ariosa ed è cambiata. Ngram Viewer di Google, uno strumento che utilizza un database di milioni di libri e riviste per tracciare graficamente la frequenza con cui appaiono le parole, indica che l’uso di “efficienza” e “produttività” è precipitato dal 1982, mentre quello di “resilienza” e “sostenibilità ” è aumentato. Ora, parliamo in misura maggiore di sostenibilità della vita economica, intesa come resilienza agli shock. Gli economisti focalizzati sull’efficienza sono ben al di là della curva culturale.
Tre fattori sembrano spiegare questo cambiamento. Il primo riguarda la crescente preoccupazione che concentrarsi solo sul costo attuale dell’utilizzo delle risorse esaurirà quelle planetarie disponibili affinché continui la specie umana. Poiché, ciò che è economico oggi potrebbe diventare incredibilmente costoso domani, quindi dobbiamo investire in tecnologie sostenibili che possano produrre un ritorno a lungo termine per l’umanità, piuttosto che solo perseverare nell’ottenimento di guadagni a breve termine per imprese e consumatori.
In secondo luogo, il COVID-19 ci ha reso molto più consapevoli della fragilità delle catene di approvvigionamento globali. La bellissima teoria di Ricardo rischia di generare un incubo se i paesi perdono l’accesso alle forniture essenziali avendo di fatto accettato la logica dell’approvvigionamento dai mercati più economici. Durante la pandemia, la maggior parte delle persone in Occidente è rimasta scioccata dalla portata della propria dipendenza dalla Cina per le forniture mediche essenziali.
Infine, è più ampiamente compreso che la ricerca dell’efficienza ad ogni costo, tanto attraverso la globalizzazione quanto l’automazione, minaccia la sicurezza e la sostenibilità dell’occupazione. “La fine della produzione è il consumo“, affermò Adam Smith con una logica impeccabile. Ma il consumo sostenibile richiede redditi sostenibili, che provengono principalmente dai salari; e siamo lontani dall’avere un sistema che ci permetta di consumare senza ricevere un salario. Infatti, in nome dell’efficienza, abbiamo consentito che si realizzassero enormi ricchezze e disparità di reddito.
Gli economisti normalmente sono desiderosi di discutere sull’argomento del “trade-off” [Trattasi di una situazione che implica una scelta tra due o più possibilità, in cui la diminuzione di una quantità costituisce un aumento in un’altra quantità]. Ma sono stati stranamente ciechi di fronte alla necessità di scambiare l’efficienza con la sostenibilità, ovvero di ampliare il loro concetto di efficienza [attuale] a misura di efficienza nel tempo. Ciò è in gran parte dovuto al fatto che i modelli di equilibrio degli economisti contemporanei non prevedono disposizioni che includano il tempo e considerano il futuro semplicemente come un’estensione del presente. Ciò che è efficiente oggi sarà efficiente domani e sempre.
Ma, come ha sottolineato John Maynard Keynes, il futuro è incerto. Non c’è motivo di credere che le condizioni che oggi rendono efficiente il libero scambio, le catene di approvvigionamento globali, l’automazione e i bassi salari continueranno a esserle domani. Come disse Keynes in una rimarchevole risposta all’econometrico (e futuro premio Nobel) Jan Tinbergen: “Si presume che il futuro sia una funzione determinata delle statistiche del passato? Che posto resta per le aspettative e lo stato di fiducia riguardo al futuro? Quale spazio è riservato per i fattori non numerici, come invenzioni, politica, problemi connessi al lavoro, guerre, terremoti e crisi finanziarie?” Potremmo compilare un elenco simile di rischi contemporanei.
Ne consegue che i responsabili delle politiche economiche devono prestare molta più attenzione al “principio di precauzione“, o al principio relativo al “minimo rischio del danno“, che mira a controllare il rischio piuttosto che a massimizzare i benefici. L’economista Vladimir Masch chiama questo approccio “ottimizzazione vincolata al rischio” e sostiene che “è necessario nelle condizioni altamente pericolose, incerte e complesse di questo secolo“. Utilizzando modelli matematici, Masch ha costruito una serie di strategie vincolate candidate al rischio.
Una regola decisionale così prudente può portarci a linee di pensiero scomode. Ad esempio, quanto è sostenibile un aumento incontrollato della popolazione globale? Continuiamo a riporre la nostra fiducia nella scienza e nell’istruzione per limitare la crescita della popolazione nel tempo, ma non sappiamo quanto tempo sarà disponibile. Ci sono sicuramente motivi per la preoccupazione malthusiana secondo cui l’aumento del numero di persone superi le risorse disponibili per sostenerle, da cui pestilenze, carestie, inondazioni e guerre su larga scala, che tradizionalmente, riducono la sovrappopolazione.
Allo stesso modo, una tecnologia sostenibile è sicuramente quella che non pone richieste estreme al nostro potere di adattabilità, purché l’innovazione non minacci un diffuso licenziamento economico e sociale e il prevedibile contraccolpo politico. Attualmente guardiamo al progresso tecnologico esclusivamente attraverso la lente dell’efficienza e permettiamo che il suo ritmo sia fissato dalla concorrenza sul mercato mediante il taglio dei costi. Il principio prudenziale implica l’adattamento della tecnologia alle persone, piuttosto che il contrario.
Infine, quanto è sostenibile un’economia politica capitalista che deve consentire al suo sistema finanziario di crollare periodicamente sulla base del fatto che si reputi “efficiente” nella gestione dei rischi?
Finora abbiamo solo iniziato a grattare la superficie di tali domande. Ma mentre il linguaggio dell’efficienza e della sostenibilità cambia, il pensiero economico deve mettersi al passo con la nuova situazione.
Robert Skidelsky, a member of the British House of Lords, is Professor Emeritus of Political Economy at Warwick University. The author of a three-volume biography of John Maynard Keynes.
[1] Radical Uncertainty, John Kay & Mervyn King, The Bridge Street Press, 2020, London, UK.