Se il The Economist ne fa un editoriale da copertina (October 30th), ciò significa che il processo sta avanzando come argomento di discussione globale, verso cui il sottrarsi da una cosiddetta “impossibile soluzione” sarà sempre più difficile. Per completezza si veda anche https://ilponte.home.blog/2020/01/31/shoshana-zuboff-il-capitalismo-della-sorveglianza/
How to deal with free speech on social media
It is too important to be determined by a handful of tech executives
È la più grande causa antitrust degli ultimi due decenni. Il 20 ottobre il Dipartimento di Giustizia Americano (doj) ha affermato che Google stipula accordi inossidabili con i produttori di apparecchi telefonici, reti e browser, che ne fanno diventare il motore di ricerca predefinito. Il dipartimento afferma che ciò danneggia i consumatori, essendone così privi di alternative. L’accordo è sostenuto dal predominio di Google nella ricerca sul web, che possedendo una quota di mercato globale di circa il 90%, genera profitti pubblicitari i quali pagano gli stessi accordi.
Il doj non ha ancora detto quale rimedio intende esigere, ma potrebbe costringere Google e la sua casa madre, Alphabet, a cambiare il modo in cui strutturano le loro attività. Però, non si trattenga il respiro: Google respinge la causa come una sciocchezza, quindi il caso in questione potrebbe protrarsi per anni.
L’azione contro Google può sembrare lontana dalla tempesta che si sta agitando nei confronti di Facebook, Twitter e i social media. L’una, come un laser si focalizza su un tipo di contratto aziendale, l’altra, si tratta d’un uragano di categoria 5 d’indignazione popolare che colpisce aziende tecnologiche irresponsabili, con l’apparente scopo di distruggere la società. La sinistra afferma che, dalle teorie cospirative di QAnon all’incitamento dei suprematisti bianchi, i social media stanno annegando gli utenti nell’odio e nelle menzogne. La destra accusa le aziende tecnologiche di censura, compresa quella della scorsa settimana per un discutibile articolo in cui si accusava la famiglia di Joe Biden, il candidato alla presidenza democratica, di corruzione.
Eppure, la domanda su cosa fare con i social media può essere vista meglio attraverso le stesse quattro fasi della causa legale intentata contro Google: danno, dominio, rimedi e ritardo. La posta in gioco è quella di stabilire chi controlla le regole della pubblica libertà d’espressione.
Un decimo degli americani pensa che i social media siano utili; quasi due terzi di loro sostengono che causano danni. Da febbraio YouTube ha identificato oltre 200.000 video “pericolosi o fuorvianti” sul covid-19. Prima del voto nel 2016, 110-130 milioni di americani adulti hanno letto notizie false. In Myanmar Facebook è stato utilizzato per istigare attacchi genocidi contro i Rohingya, una minoranza musulmana. La scorsa settimana Samuel Paty, un insegnante francese, che ha utilizzato vignette sul Profeta Muhammad per parlare sulla libertà di parola, è stato assassinato dopo una campagna sui social media contro di lui. L’assassino ha twittato un’immagine della testa mozzata del signor Paty, che giaceva in strada.
I mutevoli tentativi delle aziende tecnologiche di drenare questo pozzo nero equivale al fatto che una manciata di dirigenti non eletti sta fissando i confini della libertà di parola. È vero, la radio e la tv condividono la responsabilità della disinformazione e le affermazioni repubblicane di pregiudizi non sono dimostrate: le fonti di destra spesso sono in cima alle liste dei post più popolari su Facebook e Twitter. Ma cresce la pressione sulle aziende tecnologiche per limitare sempre di più la loro diffusione. In America la destra teme che, sollecitati dalla Casa Bianca democratica, dal Congresso e dai propri dipendenti, i responsabili delle aziende seguano l’etica di sinistra su ciò che sia o meno accettabile. Si paragoni questo con l’ampia licenza del Primo Emendamento di offendere.
Altrove, i governi hanno anche utilizzato le società di social media per aggirare la legge, spesso senza dibattito pubblico. A Londra la polizia metropolitana chiede di rimuovere i post legali, ma inquietanti. A giugno il Consiglio costituzionale francese ha concluso un accordo tra il governo e le società tecnologiche, poiché il primo limitò la libertà di parola. Un’iniziativa che sarà sicuramente rivista dopo l’omicidio di Paty. Nel citare i precedenti fatti in occidente, i governi più autoritari in paesi come Singapore si aspettano che le aziende tecnologiche limitino le “notizie false”, includendo potenzialmente le fastidiose critiche degli oppositori.
Questo potrebbe non avere importanza se le reti fossero meno dominanti. Se le persone potessero convertire con la stessa facilità con cui cambiano i cereali per la colazione, potrebbero evitare le regole che non amano. Ma cambiare è come rinunciare al proprio numero di cellulare: ciò vuole dire tagliarci fuori dai nostri rispettivi amici. Anche i social network sono diventati così centrali per la distribuzione di notizie e d’opinioni da essere, afferma Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, una “piazza cittadina”. Se si vuole far parte della conversazione non abbiamo altra scelta che essere lì, avendo a disposizione un pulpito personale.
Questa morsa sugli utenti ha un’ulteriore triste implicazione per la verità e la decenza. Per vendere più annunci, gli algoritmi delle società tecnologiche inviano notizie e post in ragione dei quali si pensa che questi attirino la nostra attenzione. Politici cinici, truffatori ed estremisti approfittano di questa inclinazione alla “viralità” per diffondere bugie e odio. Bots, fake news, ovvero: post realistici di personaggi pubblici, che fanno o dicono cose che non sono mai accadute, e che rendono il loro lavoro più conveniente e più facile. Ebbene, il tutto sta rapidamente diventando più sofisticato.
Per ovviare ciò, il rimedio più efficace sarebbe quello cambiare il modello di business delle aziende tecnologiche e introdurre una maggiore concorrenza. Funziona già bene in altre aree della tecnologia, come il cloud. Un’idea consisterebbe nel fatto che le persone possiedano i propri dati individualmente o collettivamente. I social network diventerebbero utilities pagate con una tariffa fissa, mentre le persone o le collettività otterrebbero il compenso dagli inserzionisti e stabilirebbero i parametri per ciò che a loro viene dato da vedere. D’incanto ciò allineerebbe i guadagni della pubblicità con l’onere a carico delle persone a cui la pubblicità viene diretta.
Se gli utenti potessero trasferire i propri dati su un’altra rete, le aziende tecnologiche dovrebbero competere per fornire un buon servizio.
Gli ostacoli [che si frappongono a questo progetto] sono immensi. Il valore delle aziende tecnologiche crollerebbe di centinaia di miliardi di dollari. Non è chiaro sapere se si possiedono i dati delle proprie connessioni online. Non si potrebbe migrare in una nuova rete senza perdere gli amici rimasti a meno che le piattaforme non siano interoperabili, come lo sono le reti di telefonia mobile. Forse, le autorità potrebbero imporre rimedi meno radicali, come dare agli utenti il diritto di scegliere i feed stabiliti da una regola neutra, non un algoritmo che attiri l’attenzione.
Le chiavi dell’Hype House[1]
Tali idee non possono essere implementate rapidamente, ma oggi le società necessitano di soluzioni. Inevitabilmente, i governi vorranno stabilire le regole di base a livello nazionale, proprio come fanno per la libertà di parola. Dovrebbero definire un quadro che copra oscenità, istigazione e diffamazione e lasciare ad altri giudizi sui singoli post. La normativa internazionale sui diritti umani è un buon punto di partenza, perché tende alla libertà di parola e richiede che le restrizioni siano pertinenti e proporzionate, ma consente il ritaglio per alcune nicchie locali.
Le aziende di social media dovrebbero prendere questi standard come base. Se vogliono andare oltre, allegando avvertimenti o limitando il contenuto che è da considerarsi legale, i punti fermi dovrebbero consistere in prevedibilità e trasparenza. In quanto guardiani della piazza cittadina, dovrebbero aprire i loro processi al vaglio e alle decisioni particolari verso le quali appellarsi. Le modifiche alle regole ad hoc da parte dei massimi dirigenti, come con la recente decisione di Biden, sono sbagliate perché sembrano arbitrarie e politiche.
Casi difficili, come cacciare gli oppositori di Bashar al-Assad in Siria da una piattaforma per aver menzionato i terroristi, dovrebbero essere aperti al riesame da parte di organi non statutari rappresentativi con più potere di quello creato da Facebook. I ricercatori indipendenti hanno bisogno di un accesso molto più libero ai dati resi anonimi in modo che possano vedere come funzionano le piattaforme e suggerire riforme. Tale processo decisionale dovrebbe essere oggetto d’esame. In America i politici possono utilizzare la rimozione della protezione dall’azione penale concessa dalla Sezione 230 del Communications Decency Act come leva per determinare il cambiamento.
Tutto ciò sarà complicato, soprattutto in politica. Quando le società sono divise e il confine tra discorso privato e politico è nebbioso, le decisioni d’intervenire sicuramente causeranno delle controversie. Le aziende tecnologiche potrebbero voler segnalare gli abusi, anche nei tweet presidenziali post-elettorali, ma dovrebbero evitare di essere trascinati in ogni dibattito. A parte l’incitamento alla violenza, non dovrebbero bloccare il confronto politico. I difetti dei politici sono esposti meglio da discussioni rumorose che da un silenzio forzato.
https://www.economist.com/leaders/2020/10/22/how-to-deal-with-free-speech-on-social-media
[1] https://tech.fanpage.it/cose-la-hype-house-il-collettivo-di-tiktoker-da-decine-di-milioni-di-fan/