Dani Rodrik
Anthony Fauci, il noto virologo americano, in audizione al cospetto dei due rami del parlamento statunitense, martedì scorso affermò in modo chiaro e inequivocabile di non essere in grado prevedere come e quando una seconda ondata pandemica infetterà il mondo. Detto ciò, a suo parere, è assai probabile che un deprecato ritorno avvenga, in quanto il virus, essendo altamente contagioso, può ri-esplodere in qualsiasi area del globo. Quindi, sottolineava con enfasi lo scienziato americano, è necessario che ogni comunità politica adotti le giuste misure affinché nel più breve tempo possibile limiti e confini il sorgere dell’infezione. Dal punto di vista scientifico tali sensate raccomandazioni non fanno una grinza. Il problema nasce quando gli inviti alla prudenza e alla lungimirante programmazione si scontrano con un onnivoro sistema economico-finanziario, la cui propensione al rischio sconsiderato e al guadagno immediato ne innervano la sua sostanza.
Dani Rodrik, il noto politologo di Harvard, sostiene che ci stiamo avviando verso un concreto cambiamento paradigmatico.
Making the Best of a Post-Pandemic World
May 12, 2020 DANI RODRIK
Insofar as the world economy was already on a fragile, unsustainable path, COVID-19 clarifies the challenges we face and the decisions we must make. The fate of the world economy hinges not on what the virus does, but on how we choose to respond.
CAMBRIDGE – L’economia globale sarà plasmata negli anni a venire da tre tendenze. Le relazioni tra i mercati e lo Stato saranno sottoposte a un ribilanciamento, a favore di quest’ultimo. Ciò sarà accompagnato da un riequilibrio tra iper-globalizzazione e autonomia nazionale, sempre a favore di quest’ultima. E le nostre ambizioni per la crescita economica dovranno essere ridimensionate.
Non c’è niente come una pandemia per evidenziare l’inadeguatezza dei mercati di fronte ai problemi dell’azione collettiva e l’importanza della capacità dello Stato di rispondere alle crisi e proteggere le persone. La crisi COVID-19 ha aumentato il volume delle richieste di una assicurazione sanitaria universale, di protezioni più forti del mercato del lavoro (compresi i lavoratori saltuari) e di una protezione delle catene di approvvigionamento domestiche per le apparecchiature mediche essenziali. Ha portato i paesi a privilegiare la resilienza e l’affidabilità della produzione rispetto ai risparmi sui costi e all’efficienza attraverso l’outsourcing globale.
E i costi economici dei lockdown cresceranno nel tempo, poiché il forte shock dell’offerta causato dall’interruzione della produzione interna e delle catene del valore globali produce anche una riduzione della domanda aggregata.
Ma mentre COVID-19 rafforza e radica queste tendenze, non è la forza primaria che le guida. Tutti e tre – maggiore azione del governo, ritirata dall’iper-globalismo e tassi di crescita più bassi – precedono la pandemia. E mentre potrebbero essere visti come pericolosi per la prosperità umana, è anche possibile che siano portatori di un’economia globale più sostenibile e inclusiva.
Consideriamo il ruolo dello Stato. Il consenso fondamentalista del mercato neoliberista è in ritirata da qualche tempo. La progettazione di un ruolo più ampio per il governo nel rispondere alla disuguaglianza e all’insicurezza economica è diventata una priorità fondamentale per economisti e politici. Benché l’ala progressista del Partito Democratico negli Stati Uniti non è riuscita a ottenere la nomina presidenziale del partito, ha in gran parte dettato i termini del dibattito.
Joe Biden può essere un considerato un “centrista”, ma su ogni tema politico – salute, istruzione, energia, ambiente, commercio, criminalità – le sue idee sono posizionate a sinistra rispetto al precedente candidato presidenziale Democrats, Hillary Clinton. Come ha affermato un giornalista, “l’attuale serie di ricette politiche di Biden sarebbe … considerata radicale se fosse stata proposta in una precedente primaria presidenziale democratica“. Biden potrebbe non vincere a novembre. E nel caso in cui vincesse, potrebbe non essere in grado o disposto ad attuare un’agenda politica più progressista. Tuttavia, è chiaro che la direzione, sia negli Stati Uniti sia nell’Europa, vada verso un maggiore intervento statale.
L’unica domanda è quale forma prenderà questo Stato più intraprendente. Non possiamo escludere un ritorno a un dirigismo vecchio stile che conseguì pochi risultati rispetto a quelli che furono gli obiettivi in origine. D’altro canto, il passaggio dal fondamentalismo di mercato potrebbe assumere una forma veramente inclusiva, incentrata su un’economia verde, buoni posti di lavoro e ricostruzione della classe media. Un tale ri-orientamento dovrebbe essere adattato alle condizioni economiche e tecnologiche del momento attuale e non semplicemente imitare la vena politica che irradiò i tre decenni d’oro dopo la seconda guerra mondiale.
Il ritorno dello Stato va di pari passo con il rinnovato del primato degli stati-nazione. L’argomento in ogni dove riguarda la de-globalizzazione, il disaccoppiamento, il ripristino delle catene di approvvigionamento, la riduzione della dipendenza dalle forniture estere e la promozione della produzione e della finanza nazionale.
Gli Stati Uniti e la Cina sono i paesi che danno l’abbrivio. Ma l’Europa, perennemente sull’orlo di una maggiore unione fiscale, fornisce un piccolo contrappeso. Durante questa crisi, l’Unione Europea ha ancora una volta abbandonato la solidarietà transnazionale e ha posto l’accento sulla sovranità nazionale.
Il recesso dall’iper-globalizzazione potrebbe portare il mondo su un percorso di escalation di guerre commerciali e l’aumento dell’etno-nazionalismo, che complessivamente danneggerebbe le prospettive economiche di tutti. Ma questo non è l’unico risultato immaginabile.
È possibile prevedere un modello di globalizzazione economica più sensato e meno invadente che si concentri su aree in cui la cooperazione internazionale paghi davvero, tra cui sanità pubblica globale, accordi ambientali internazionali, [discussione sui] paradisi fiscali globali. In alternativa, altre aree suscettibili alle politiche economiche attraverso le quali un paese tenta di porre rimedio ai propri problemi economici con mezzi che tendono a peggiorare i problemi economici di altri paesi. Altrimenti [senza quel modello], gli stati-nazione sarebbero liberi di stabilire un ordine d’importanza ai loro problemi economici e sociali.
Un tale ordine globale non sarebbe contrario all’espansione del commercio e degli investimenti mondiali. Potrebbe anche facilitare entrambi, in quanto apre lo spazio per ripristinare gli affari sociali interni nelle economie avanzate ed elaborare strategie di crescita adeguate nei paesi in via di sviluppo.
Forse, la prospettiva più dannosa che il mondo deve affrontare a medio termine è quella di una significativa riduzione della crescita economica, specialmente nei paesi in via di sviluppo. Questi paesi hanno avuto un buon quarto di secolo, con notevoli riduzioni della povertà e miglioramenti nell’istruzione, nella salute e in altri indicatori di sviluppo. A parte l’enorme onere per la salute pubblica a causa della pandemia, ora affrontano significativi shock esterni: un improvviso arresto dei flussi di capitale e forti cali delle rimesse, del turismo e delle entrate dalle esportazioni.
Ma ancora una volta, COVID-19 accentua solo un problema di crescita preesistente. Gran parte della crescita nei paesi in via di sviluppo al di fuori dell’Asia orientale si basava su fattori dal lato della domanda – in particolare boom degli investimenti pubblici e delle risorse naturali – che erano insostenibili. L’industrializzazione orientata all’esportazione, il veicolo più affidabile per lo sviluppo a lungo termine, sembra aver terminato il suo corso.
I paesi in via di sviluppo dovranno ora fare affidamento su nuovi modelli di crescita. La pandemia può essere la sveglia necessaria per ricalibrare le prospettive di crescita e stimolare il più ampio ripensamento necessario.
Poiché l’economia mondiale fosse già su un percorso fragile e insostenibile, COVID-19 chiarisce le sfide che dobbiamo affrontare e le decisioni che dobbiamo prendere. In ciascuna di queste aree, i responsabili politici si trovano al cospetto di scelte. Sono possibili risultati migliori e peggiori. Il destino dell’economia mondiale non dipende da ciò che fa il virus, ma da noi su come scegliamo di rispondere.
Dani Rodrik, Professor of International Political Economy at Harvard University’s John F. Kennedy School of Government, is the author of Straight Talk on Trade: Ideas for a Sane World Economy.