Skip to main content

Italia-Germania

Italia e Germania (olio su tela) 1828, Friedrich Overbeck

Rotta di collisione

Ricordo quando nell’estate del 2018 lessi il saggio “Rotta di collisione” di Maurizio Ferrera; rimasi molto colpito allora dalla sua analisi, con anche ampia critica, seppur costruttiva da un punto di vista liberale, alla Unione Europea e alla sua assenza di una adeguata dimensione sociale, pilastro fondamentale che andava costruito se non si fosse voluto un pesante arresto del processo di integrazione alla successiva crisi.

Oggi stiamo probabilmente vivendo una fase che segnerà un passaggio ancora più importante della crisi del 2008-2011. Innescata da questa “crisi coronavirus”, l’evoluzione degli eventi sta portando, e porterà ancor più, ad una crisi economica e di instabilità paragonabile probabilmente al Nixon shock degli anni ’70, in cui gli USA decretarono la fine del regime di Bretton Woods, oppure se volete la più recente caduta del Muro di Berlino con annessa implosione del sistema sovietico.

Ovviamente non è mia intenzione, in primis per limitate capacità personali, tracciare precisi paralleli ed intuire precise traiettorie degli sviluppi che verranno, ma risulta interessante da un lato considerare alcuni sviluppi storici che permettano di inquadrare quella che si ritiene la portata della questione, dall’altro provare a descrivere e comprendere quelli che potrebbero essere i temi dirimenti per il futuro. In particolare, l’Eurozona, e se volete più in generale l’Unione Europea, è chiamata in questa fase ad un compito gravoso. E nel parlare di UE non si possono non accendere i riflettori sulla Germania, da anni ormai considerata la locomotiva d’Europa, paese che più degli altri potrà giocare un ruolo chiave nella gestione di questa fase.

Chi esercita un’influenza e ha assunto un ruolo così dominante all’interno di un certo contesto politico ha non solo il diritto, ma ancor più il dovere politico, anzi si potrebbe dire storico, di assumersi la responsabilità di prendere in mano il timone della nave. Quello che auspico, è che la Germania possa aver appreso la lezione della crisi del 2008-2011, e decida oggi di agire da “egemone benevolo”, ritrovando quel sentimento comunitario e solidale ben presente in figure come Willy Brandt, o anche Helmut Kohl, e ricacciando quel ruolo di “potenza ingombrante” sopito ma forse mai estinto in alcuni meandri del popolo tedesco, o semplicemente a volte un po’ fastidiosamente paternalista. Prima però di arrivare a ciò vorrei percorrere alcune tappe per comprendere i limiti insiti nel modello tedesco all’interno dell’Eurozona.

Il modello-Germania

Molti nodi stanno venendo al pettine. In primis, sembra sempre più chiaro che il “modello tedesco” caratterizzato da una crescita economica export-led, non può essere trasferito come modello comune a tutta l’Eurozona. Va tuttavia ricordato che risulta troppo semplicistico, ed ingeneroso, attribuire alla Germania tutte le colpe possibili di questa instabilità. Il “modello tedesco” ha molti limiti, ma bisogna ricordare la vocazione comunitaria che ebbero in particolare leader come Kohl, il quale gestì un complesso periodo di unificazione e il successivo Trattato di Maastricht.

Bisogna ricordare come la vulgata secondo la quale la moneta unica fu imposta dalla Germania sugli altri Stati membri sia distante dalla realtà. Come ricordava Jacques Delors durante la sua presidenza alla Commissione UE: “pochi tedeschi credono realmente in Dio, ma tutti credono nella Bundesbank (leggi Marco Tedesco, aggiungerei io)”. Per la Germania rinunciare alla propria moneta fu un sacrificio non trascurabile, visto appunto la venerazione quasi divina di cui il D-Mark godeva. Una certa narrazione, mai confermata ma de facto sostanzialmente appropriata, si potrebbe riassumere nella battuta: “A Kohl tutta la Germania, a Mitterand metà del Deutsche-Mark.”

Non si vuole far passare ingenuamente l’idea che la Germania rinunciò al Marco per meri motivi di interesse comunitario, poiché sicuramente molte furono le pressioni, e altrettanto giocò sicuramente il fatto di concedere una contropartita adeguata all’obbiettivo della riunificazione tedesca in chiave di sentimento nazionalista. Sarebbe però ingeneroso non riconoscere alla élite tedesca del tempo di aver resistito all’imposizione di una sorta di sistema-marco europeo, con la Germania al centro dell’Europa in ottica di superpotenza; in Kohl infatti, così come in molti leader sia socialdemocratici, cristiano-democratici e liberali tedeschi, era ben chiaro il pericolo di una possibile rinascita di un eccesso di nazionalismo tedesco che avrebbe potuto scaturire da un combinato disposto dato da un ritorno della Germania unita e un forte D-Mark al centro del continente, forse non tanto per quello che questo riacceso nazionalismo avrebbe potuto effettivamente fare tramite i partiti di estrema destra, ma il sospetto e le reazioni che avrebbe potuto creare nella comunità internazionale.

Detto ciò, la Germania oltre ad ottenere in cambio dalla rinuncia al Marco la riunificazione, ottenne anche una impostazione di politica economica e monetaria all’interno della nascente Eurozona (in seguito EZ) perfettamente in linea con il proprio pensiero dominante in termini in economia politica: il cosiddetto ordoliberalismus.

Anche qui andrebbe più correttamente ricordato che il successo della visione stile “modello Germania” all’interno della EZ non fu dovuto solo ad una pressione della Germania stessa, ma fu causato, o quantomeno fortemente agevolato, da una visione complessiva del modello macroeconomico dominante che vigeva in quegli anni, il quale aveva relegato Keynes nei meandri del dimenticatoio della letteratura economica, e la quale invece spingeva il vento in poppa al monetarismo di Milton Friedman e più in generale alla scuola di Chicago.

Seppur diverso sotto molti aspetti, la versione tedesca di tale impostazione macroeconomica, trovò terreno fertile nel tessuto anche intellettuale dominante del tempo: economia di mercato, stabilità dei prezzi, indipendenza della Banca Centrale. Questo permise alla Germania di “esportare” all’interno del sistema Euro la sua visione di disciplina interna di bilancio, che aveva permesso il successo economico della Germania dal dopo guerra. Tuttavia era proprio il limite intrinseco presente nel trasportare questo modello da una singola nazione all’intero sistema comunitario che portò a creare quelle distorsioni che sono oggi alla base della disfunzionalità dell’EZ.

Volendo fare un parallelo con il modello Bretton-Woods, si potrebbe dire che il sistema Euro che venne fuori dal trattato di Maastricht resistette, come avrebbe voluto Keynes, alle pressioni del Paese egemone di imporre un sistema monetario incentrato unicamente intorno alla propria moneta (come il sistema-dollaro imposto dagli USA a Bretton-Woods, il quale ebbe la meglio sul sistema-Bancor proposto da Keynes), ma fallì completamente nel ricordare le lezioni principali di Keynes in  termini di squilibri macroeconomici, preoccupandosi unicamente degli squilibri “verso il basso”, ma non di quelli “verso l’alto”; per dirla con Joerg Bibow: “istituzionalizzando la asimmetria all’interno di Maastrcht”. In particolare due effetti in seno all’EZ sono risultati evidenti come fenomeni disfunzionali e di amplificazione delle distorsioni dei mercati finanziari.

Il primo, come ben descrive ancora una volta Bibow nel suo working paper “Twenty Years of German Euro are more than enough”, trova il suo difetto nell’aver permesso alla Germania di eseguire una de facto svalutazione interna, in termini relativi quantomeno; infatti il modello tedesco istituzionalizzato all’interno dell’EZ ha permesso in questi anni alla forte economia tedesca di raggiungere livelli di surplus commerciale a dir poco spaventosi, senza che a essi corrispondesse una adeguata rivalutazione interna, in termini di aumento dei prezzi e dei salari.

Per ripassare alcuni numeri, il surplus commerciale tedesco è stato costantemente, con aumenti tendenziali, dal 2002 al 2019 tra i 132 e i 223 miliardi di € (fonte: Statistisches Bundesamt (Destatis) 2020). Questa tendenza export-led dell’economia tedesca ovviamente non era una novità storica, come abbiamo detto, ma mai si era verificato in termini così forti e soprattutto così lungamente perpetuato negli anni, mantenendo costantemente all’interno dell’EZ una divergenza verso il basso dello unit labour cost, con un andamento largamente al di sotto della media EZ; in sintesi, la Germania ha generato un effetto di über-competitiveness all’interno del sistema Euro persistentemente per più di un quindicennio, con un effetto di svalutazione interna assolutamente distorsiva nei confronti degli altri paesi; il pericoloso atteggiamento beggar-thy-neighbour uscito dalla porta con l’eliminazione delle svalutazioni valutarie/monetarie, è rientrato dalla finestra con una inopportuna svalutazione interna non giustificata a livello macroeconomico.

Il secondo,  che ben descrive Paul de Grauwe nel suo “I limiti del mercato” è un effetto connaturato alla natura intrinseca dell’EZ e della assenza di una adeguata condivisione dei debiti sovrani (e di un sistema di compensazione di tali squilibri da anni attuato dalla BCE tramite QE che porta però la stessa ai limiti delle sue funzioni).

Volendo essere molto brevi, e semplificando molto, l’effetto potrebbe essere ben descritto da un esempio semplice: se all’interno della EZ un Paese entra in crisi economica, si potrebbe innescare una spirale di sfiducia nei confronti di questo Stato (vedi caso Spagna, Italia nel 2010-2011) con una conseguente impennata dei tassi di interesse sui debiti sovrani (il cosiddetto spread) e con gli investitori portati invece a cercare rifugio nei titoli di altri Stati considerati forti (Germania). Questo effetto se non controbilanciato da manovre anti-cicliche può essere fonte di ulteriore disfunzionalità e instabilità, poiché contribuisce a deprimere ulteriormente le economie di Stati già in difficoltà, e permette un flusso di capitali verso economie già forti; un effetto pro-ciclico pericolosamente distorsivo insomma.

Ovviamente il discorso e le analisi sarebbero moltissime e a moltissimi livelli, cosa che va ben al di là delle mie intenzioni in questa riflessione. Tuttavia ho voluto descrivere in maniera credo equilibrata come sia da un lato sbagliato attribuire alla Germania una imposizione della moneta unica e addossarle una sorta di ruolo autarchico e impositivo all’interno dell’EZ, dall’altro però cercando di descrivere i grossi limiti del modello tedesco implementato all’interno del sistema Euro con una visione eccessivamente nazionalista del livello comunitario e gli errori della Germania nella gestione delle recenti crisi.

Correndo per la Schwarzwald

Le PMI italiane lamentano il fatto che l’Euro abbia seriamente compromesso l’economia italiana a favore di quella tedesca, e in Italia in generale vige un sentimento per cui le politiche restrittive in termini di contenimento del deficit di bilancio abbiano inasprito la crisi economica e sociale del 2011-2012. I risparmiatori tedeschi si lamentano dei tassi negativi sui titoli di Stato tedeschi, e accusano Draghi di essere stato l’artefice indiretto di ciò con le sue politiche monetarie, che rischiano di portare serie conseguenze nel sistema finanziario. Chi ha ragione? In parte potremmo dire che hanno ragione entrambi.

Da un lato l’Euro modellato molto sull’economia tedesca è risultato una moneta difficile da sostenere per i Paesi limitrofi (anche se la crisi della produttività italiana inizia anche da fattori precedenti all’Euro), e la crisi del 2010-2011 è stata mal gestita, confusa inizialmente come una crisi di insolvenza dei debiti sovrani, quando al massimo poteva trattarsi di una crisi di liquidità, risolta infatti con il famoso annuncio “whatever it takes”, senza che la BCE dovesse sprecare un solo cent di quel “whatever”.

Dall’altro lato è vero che le politiche monetarie della BCE sono interventi che possono servire solo da palliativo, ma se protratte a lungo rischiano di creare distorsioni pericolose; di ciò d’altro canto ne era cosciente lo stesso Mario Draghi il quale già nel 2014 ammoniva che la BCE non avrebbe potuto salvare l’EZ a lungo se non vi fossero fatti dei passi avanti in termini di riforme del sistema Euro.

I cittadini tedeschi dovrebbero forse sforzarsi di cambiare punto di vista, e pensare che la colpa del fatto che abbiano tassi di interesse negativi non sia dovuto al debito italiano o a “Mario Draghila” ma piuttosto al fatto che il Governo tedesco non abbia eseguito nella misura adeguata quella rivalutazione interna doverosa per bilanciare e redistribuire l’enorme avanzo di bilancio commerciale accumulato in questi 20 anni di moneta unica.

D’altro canto gli italiani dovrebbero forse sforzarsi di osservare che parte della perdita di competitività del proprio sistema produttivo non sia dovuto solo alla Germania, ma a qualcosa che pre-esisteva rispetto all’entrata in vigore dell’Euro; forse si potrebbero dare maggiori colpe all’impostazione del modello macroeconomico vigente allora (e tuttora, seppur in crisi), improntato principalmente su una visione neo-liberal, piuttosto che alla sola Germania. Molte sarebbero anche qui le cose da dire, le analisi da fare, ma non vorrei che una semplice riflessione, già protrattasi (forse troppo) a lungo possa degenerare in un short paper di economia politica.

La Germania ha ora il pallino in mano. Una partita chiave sarà giocata sul tema degli Eurobond, o quantomeno su delle versioni embrionali degli stessi. Merkel e Scholz dovranno decidere se far fare quel salto in avanti all’integrazione europea attraverso lo strumento del debito comune, oppure restare ad aspettare. Certo il salto verso gli Eurobond e il passaggio ad una graduale accettazione di “più Keynes” all’interno del sistema EZ sarà cruciale e non facile da digerire per la Germania. Economisti come Bibow sono più scettici sul fatto che ciò possa accadere, per non parlare di figure come Wolfgang Streeck le quali hanno suonato la campana a morto dell’UE da molto tempo.

Altri segnali più positivi e di apertura sembravano arrivare proprio invece dal Walter Eucken Institute di Freiburg, culla del pensiero ordoliberista, il quale un anno e mezzo fa dedicava alcuni working paper ad una più sfumata visione tra Eucken e Keynes, chiaro segno di apertura, quantomeno accademica, ad una certa impostazione in ambito macroeconomico. Personalmente non mi reputo all’altezza di fare previsioni.

Quello che però mi pare più chiaro è che da questo passaggio cruciale sarà difficile uscirne con un attendismo tipico della gestione tedesca in questi anni, ma andrà scegliere una direzione chiara, con passi più netti; o si andrà chiaramente verso una apertura agli Eurobond e una forte e incisiva rivalutazione interna della Germania, con un conseguente chiaro intento di mettere il solido tetto tedesco al servizio dell’edificio europeo, oppure forse bisognerà iniziare a ragionare seriamente su come riequilibrare la distanza ormai difficilmente sopportabile tra integrazione monetaria e integrazione politica. Per dirla come Rodrik: “Un pessimista spera sempre che in qualche recondito angolo dei corridoi del potere di Berlino e Parigi un gruppo di economisti e avvocati stia preparando un piano da sfoderare quando non sarà più possibile rimandare l’allentamento dell’unione economica.

Molto forse di quanto accadrà in seno all’UE dipenderà dalle relazioni diplomatiche tra Italia e Germania, a mio avviso, forse più di quanto si possa pensare. Oltre al capolavoro del XIX secolo ad opera di Freidrich Overbeck, il sentimento che intercorre tra il popolo tedesco e quello italiano è ben rappresentato, a mio avviso, da un bel passaggio di Marco Piantini in “La parabola d’Europa”, piacevole per la sua delicatezza che nasconde una flebile speranza di chi si sente in un certo senso da ambo le sponde di questi due “popoli”:

“Il legame interrotto tra cultura e politica, e tra mito e realtà, accompagna quella vicenda [la caduta del Muro di Berlino]  così come quella della sinistra in altri paesi. Questo ha reso inevitabile accennare al rapporto difficile ma indispensabile per il rilancio dell’Unione Europea tra Italia e Germania, e alle figure ingombranti di Angela Merkel e Wolfgang Schäuble. Quante volte discutiamo dell’amicizia impossibile tra questi due paesi. In fondo il tema del rapporto con la Germania è come-la-mamma [o il papà]: spesso insopportabile quanto uno cresce, ma insostituibile punto di partenza. In definitiva credo che i due paesi soffrano entrambi, come complessivamente l’UE, di una crisi di senso dello sviluppo capitalistico.”

Io, che in quanto a capacità artistiche e prosa narrativa non posso permettermi altrettanto, molto più modestamente mi sentirei di dire agli amici in Italia, i quali oggi forse diffidano un po’ della Germania che, alla fine, quando spesso correvo d’estate tra i sentieri della Schwarzwald, mi sentivo a casa esattamente come nei momenti in cui correvo tra i campi nell’Alessandrino, intorno a Fresonara.

Giorgio Laguzzi

Giorgio Laguzzi

Nato ad Alessandria nel 1984 ha presto lasciato la sua città per conseguire un Dottorato di Ricerca in Logica matematica a Vienna. Ha intrapreso la carriera accademica in Germania per poi tornare a casa dove è attualmente ricercatore presso l'Università del Piemonte Orientale. Dal 2022 ricopre la carica di Assessore del Comune di Alessandria.

Il Ponte