Il Governo gialloverde sembra essere giunto al capolinea. Ma cosa ha significato questa esperienza, e quali importanti riflessioni ci deve portare a compiere?
Proponiamo qui una riflessione seguendo un approccio ampio e generale, cercando anche un filo conduttore quasi storico in termini di cicli politici e economici, poiché, come insegnavano le scuole politiche dei partiti di massa, al fine di analizzare una situazione in maniera appropriata, risulta necessario prima analizzare le questioni in termini generali e globali, e solo conseguentemente desumere la situazione a livello nazionale e locale.
In un successivo articolo cercheremo poi di portare questa riflessione generale sul terreno nazionale e contingente per tentare di capire dove stia tirando il vento e quale sia la posta in gioco.
Dalla tricotomia Liberalismo-Socialismo-Nazionalismo alla tricotomia Globalizzazione-Democrazia-Nazione
Durante il periodo di interregno tra la prima e la seconda guerra mondiale, il mondo si caratterizzava per la presenza di tre grandi categorie del pensiero politico con corrispondenti visioni di politica economica: la dottrina liberale, che vedeva la sua espressione più estrema economico-politica nell’anglosfera attraverso il capitalismo liberale; la dottrina socialista, la quale vide la sua espressione più estrema nel regime sovietico attraverso la dittatura del proletariato e un de facto capitalismo di stato comunista; la dottrina nazionalista, la quale vide la sua massima espressione in Germania e Italia durante gli anni Venti e Trenta.
La seconda Guerra Mondiale fu il periodo storico all’interno del quale venne schiacciata la dottrina nazionalista, lasciando successivamente sul campo il periodo conosciuto come Guerra Fredda che vide il confronto tra i primi due, conclusosi a sua volta (quantomeno simbolicamente) con la caduta del muro di Berlino. Da allora la dottrina liberale estese la sua egemonia senza più alcun contrappeso, almeno apparentemente (tesi di Fukuyama conosciuta come Fine della Storia), inaugurando quel ciclo politico-economico cosiddetto neoliberista.
Tuttavia l’assenza di un contrappeso non fece bene alla egemonia neoliberista, poiché quel buon equilibrio ottenuto nel trentennio glorioso post-bellico, attraverso un capitalismo inclusivo sorretto da una democrazia rappresentativa e un forte stato sociale, lasciò piano piano il campo ad un capitalismo più aggressivo, con una progressiva riduzione sia dello stato sociale sia degli spazi democratici nazionali.
Come abbiamo visto in altri articoli, da circa un decennio, grazie a Dani Rodrik, e non a caso quasi in concomitanza con la crisi di sistema iniziata nel 2007-2008, si è affacciata nel dibattito accademico una nuova tricotomia: Globalizzazione-Democrazia-Nazione. Ad un osservatore attento non può sfuggire come questa terna si presenti come una sorta di nascente riproposizione in chiave post-moderna all’interno delle società occidentale di quella che fu la tricotomia Liberalismo-Socialismo-Nazionalismo della prima metà del Novecento, dove le analogie della prima e terza tipologia di categoria delle due terne risultano pressoché ovvie, e le seconde tipologie confrontabili, laddove si consideri il termine democrazia non nel senso procedurale di democrazia rappresentativa, ma in una accezione più ampia e generica di volontà popolare, e il termine socialismo inteso come dottrina interessata a mettere al primo posto nella scala valoriale il concetto di uguaglianza (sostanziale oltre che formale) tra i cittadini.
Sia chiaro che non si intende sostenere che le categorie della terna novecentesca e quelle della terna di Rodrik siano sovrapponibili in maniera precisa, ma semplicemente che un certo isomorfismo esista e sia meritevole di riflessione, in particolare per comprendere la posta in gioco. Non è un caso che infatti, pur con le dovute e ovvie differenze, diversi analisti trovino analogie con il periodo storico che caratterizzò gli anni tra le due guerre e l’attuale fase. Come allora, una versione post-moderna di scontro/equilibrio all’interno del mondo occidentale tra queste tre categorie sembra nuovamente affacciarsi.
Quello che gli analisti nel recente passato hanno tendenzialmente etichettato con il termine “populismo” ha racchiuso infatti almeno due istanze, entrambe conseguenti ad una crisi del processo di globalizzazione così come portato avanti dagli anni Novanta in poi: una prima sorta di rivolta alla post-democrazia, ovvero una reazione allo svuotamento di potere economico cui è andato soggetto lo stato sociale, e di potere democratico a cui sono state soggette le istituzioni politiche nazionali (parlamenti nazionali), senza un sufficiente rafforzamento di un adeguato pilastro sociale europeo e dei poteri democratici delle istituzioni sovranazionali (parlamento europeo); una seconda sorta di reazione alla open society, caratterizzata dall’insorgenza di movimenti con tratti xenofobi o comunque con una impostazione di richiamo a tratti identitari nazionali esclusivi, più che inclusivi.
Questi due fenomeni, distinti, sono stati vissuti dal sistema egemone come un qualcosa di sovversivo, e in prima battuta ad una analisi grossolana sono stati confusi come fenomeni sovrapponibili ed inseribili all’interno di un quadro simile di valori, ed etichettato all’interno di un generico campo chiamato appunto “populista”. Questa contro-reazione all’insorgenza “populista” è stata vissuta inizialmente con una certa tracotante arroganza da parte del sistema egemone (liberal-democratico) nella speranza che schiacciare all’interno di questa area “populista” entrambe le tipologie di istanze avrebbe dato la possibilità di costruire una alleanza salda tra i partiti tradizionali cosiddetti di centro-sinistra e di centro-destra più moderati in grado di portare avanti riforme di sistema. Questa filosofia ha caratterizzato diversi scenari politici di diversi Paesi europei. Per dare un esempio concreto del panorama italiano, questa esperienza si è manifestata in tre casi: Governo Monti, Governo Letta, Patto del Nazareno di Renzi.
Ad una analisi più attenta, tuttavia, appare chiaro come le due reazioni populiste avessero una natura diversa, la prima più legata ad una reazione al passaggio alla fase post-democratica ed evidenziante una carenza della componente Democrazia nella terna di Rodrik; la seconda più legata ad una reazione alla open society, ed evidenziante una carenza della componente Nazione. La fusione dei due tipi di populismo è stata un esperimento abbastanza inedito, il quale trova però un sostegno teorico nel concetto di Quarta teoria politica del filosofo russo Aleksander Dugin, come una nuova categoria che si opponga a quella liberale, insorta proprio come reazione alla egemonia del trentennio cosiddetto neoliberista dagli anni ’80-’90 ed entrato appunto in crisi a partire dal 2007-2008. Il Governo gialloverde ha rappresentato forse il primo esempio, tentativo concreto, di tale nuova categoria politica, in realtà presentandosi con due ali, in parte sicuramente miste, ma attraverso le quali si poteva ben osservare una parte maggiormente ispirata al populismo del primo tipo (che in Italia ha preso tratti pseudo-giacobini) ed una parte ad un populismo identitario del secondo tipo. Torneremo sulla analisi particolare del caso italiano nel prossimo articolo, come anticipato anche sopra.
Restando qui ad una analisi in termini generali, da quanto accaduto in questi mesi di Governo gialloverde, sino al suo epilogo, si possono osservare alcuni punti generali che meritano una riflessione:
- l’insorgenza populista del primo tipo, più evanescente e senza solide fondamenta, nel tempo lascia spazio e viene risucchiata dalla componente populista identitaria;
- vista la sua breve durata e l’impossibilità di sostenere una coalizione del genere, sembrerebbe in prima battuta che la quarta teoria politica sia una categoria difficile da mantenere con basi solide, e possa in prima battuta sembrare una struttura fragile, quantomeno nel contesto occidentale;
- tuttavia, il primo e il secondo punto analizzati insieme, tendono a far pensare che la quarta teoria politica possa realmente insorgere ora, ove la componente di populismo pseudo-giacobino sia stato risucchiato dal populismo identitario;
- per converso il tentativo di schiacciare in un’unica componente l’insorgenza populista risulta non solo cosa vana, ma addirittura un processo rischioso per il sistema liberale;
- la tendenza dovrebbe essere quella che parte delle élite liberali tendano a coptare il populismo socialista, e altra parte quello identitario, ristabilendo una sorta di dicotomia politica, anche se tale processo risulta ancora vago e in via di definizione, e non sono ancora chiari i punti di equilibrio che si potranno trovare;
- in entrambi i casi, laddove anche le élite liberali riuscissero in tale intento, non potranno più svolgere quel ruolo egemonico avuto nel precedente ventennio, e dovranno concedere molto di più alle rispettive componenti populiste. Più pericoloso ancora, all’interno delle elite potrebbe avere la meglio la componente che vede nel richiamo identitario il più forte alleato per portare avanti il processo di globalizzazione creando una alleanza Globalizzazione-Nazionalismo, in grado di emarginare la componente democratica, in una versione non dissimile, anche se ovviamente post-moderna, a ciò che avvenne nell’Europa continentale degli anni Trenta. Tale alleanza sembra non palesarsi ancora a livello europeo, ma i rapporti di forza potrebbero cambiare col tempo.
Il compito dei partiti riformisti e socialisti del XXI consisterà nel creare quel sostrato culturale, quella visione di politica economica, in grado di tenere insieme la massa critica movimentata e animata dal populismo socialista e le istanze più progressiste di parte delle élite liberali, ma sia chiaro con un rapporto di forza molto diverso rispetto all’ultimo ventennio. Rafforzamento in chiave moderna dello stato sociale (salario minimo, sussidi di inclusione, società dell’apprendimento e tassazione sovranazionale), istanze ambientaliste (piano di investimenti per un green new deal) sembrano essere i due pilastri principali sui quali costruire la struttura portante di tale ponte. Una ottima e chiara elaborazione sia teorica, sia pratica, arriva dalla anglosfera, attraverso economisti e politologi di alto profilo dietro alla new left americana e al labour party inglese (Mazzucato, Stiglitz, Rodrik, Wray, Griffith-Jones, Perez, Jacobs, Krugman, solo per citarne alcuni)
Se i riformisti e i liberali europei penseranno di poter affrontare questa tempesta di contraccolpo alla globalizzazione e di crisi senza confrontarsi con l’insorgente populismo socialista/progressista, lavorando duramente per costruire un ponte tra queste sponde, commetteranno un grave errore. Nel mondo anglosassone questa cosa l’hanno capita molto bene già da tempo. E già da tempo hanno iniziato a costruire tale ponte.
Giorgio Laguzzi