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Trump Xi

Ormai è assodato che stiamo entrando in una nuova fase delle relazioni economiche-politiche che coinvolge l’intero concerto mondiale. Il The Economist la chiama con un neologismo “Slowglobalisation” [1], altri ricorrono a un termine non di nuovo conio “dis-internazionalizzazione”. Tuttavia, a prescindere dal lessico, le due linee di pensiero leggono lo stesso spartito: il ricorso alla difesa dei propri interessi nazionali sia per quanto riguarda le attività economiche (commerciali e industriali), sia per quanto concerne la protezione delle proprie comunità domestiche (cittadinanza come pre-requisito), ponendole entrambe in una posizione prioritaria nei confronti del precedente “sistema mondo”.

Scenario assai complesso, il cui epilogo nel passato – eccetto il più recente per via della paura nucleare – si è concluso in un solo modo: guerra. Ovviamente, molte sono le ragioni che hanno determinato l’avvio di questa svolta paradigmatica e questo breve post non può riassumere le varie tesi argomentanti le molteplici cause che furono genitrici di tale mutamento.

Sennonché, aprire una finestra su ciò che sta attualmente accadendo, e in particolare nel settore tecnologico, cardine del processo di globalizzazione (la digitalizzazione del mondo), ci aiuta a comprenderne meglio il trapasso e le sue eventuali conseguenze.

The technology industry is rife with bottlenecks

The US-China tech cold war is making companies more aware of them than ever

Jun 6th 2019| SAN FRANCISCO

Il Giappone aveva da tempo perso la sua leadership nell’industria elettronica. O così molti lo pensarono. Fino a che un terremoto e uno tsunami colpirono il paese nel 2011, la sua continua produzione di circuiti stampati, di wafer al silicio per produrre chips, nonché la resina per impacchettarli, e [infine anche] per molti altri componenti, il ​​Giappone era considerata la nazione più importante, a volte solo, come fornitore. Poiché la produzione si fermò, i clienti si misero alla ricerca di alternative. Molti di questi dovettero limitare la produzione, come le case automobilistiche che fanno affidamento sulla Renesas Electronics, uno dei principali produttori di chip per il controllo del motore, il cui impianto di produzione di wafer subì gravi danni.

I disastri naturali – siano essi catastrofici come il terremoto giapponese o semplicemente distruttivi come le inondazioni o gli incendi – testano regolarmente la catena di approvvigionamento dell’elettronica (supply chaine). Ora uno shock geopolitico derivante dagli sforzi del presidente Donald Trump per isolare la Cina ha esposto la struttura del settore a un forte ricambio, esponendo i suoi punti di strozzatura.

Questa struttura è pensata come una corsa a staffetta transcontinentale con ostacoli nascosti, afferma Willy Shih della Harvard Business School. I moderni dispositivi elettronici sono le cose più complesse che gli esseri umani producono. Le aziende, in ogni fase del processo, sono altamente specializzate e dispongono di tecnologia avanzata. I componenti vengono passati da una ditta all’altra, ognuno dei quali aggiunge un po’ di valore; alcune componenti attraversano l’oceano più volte. Nel caso in cui esistano solo uno o due fornitori di un particolare sottosistema, [alla fine] le corsie convergono. Le imprese a valle della catena, possono conoscere solo i loro fornitori diretti, spesso non hanno idea di cosa succeda a monte, spiega Shih, finché, qualcosa non va nel giusto verso.

A causa del terremoto in Giappone si scoprì il fatto che il paese produceva la maggior parte delle sostanze chimiche e altri materiali per manifatturare microchip. La scossa di Trump ha immediatamente messo in luce il ruolo dominante della Cina nell’assemblaggio dell’elettronica. Colà, si produce la metà della capacità mondiale, stima Henry Yeung dell’Università Nazionale di Singapore, la quale può essere accelerata in tempi molto rapidi. Ad esempio, quando l’Apple lancia un nuovo iPhone, decine di migliaia di lavoratori devono essere assunti entro poche settimane.

A maggio il Dipartimento del Commercio americano ha inserito nella lista nera Huawei, un titano della tecnologia cinese e 70 dei suoi affiliati, escludendo le imprese americane dalla vendita di determinate tecnologie senza l’approvazione del governo. Questa decisione ci rende edotti sulla formazione di un altro collo di bottiglia: i chip. Come [è accaduto per] ZTE, una piccola azienda cinese che nel 2017 si è trovata, sebbene per poco tempo, in una situazione simile. Huawei non potrebbe sopravvivere senza chip progettati in America.

Nonostante Huawei abbia una propria sussidiaria di semiconduttori, HiSilicon, importa ancora la maggior parte dei suoi chip e ha speso $ 11 miliardi l’anno scorso per componenti dall’America. Qualcomm, una società con sede a San Diego, produce circa la metà dei processori in banda base del mondo, i chip per i modem che gestiscono le connessioni wireless. Intel fabbrica praticamente tutti i chip “server-class” utilizzati nei data center del pianeta. Chips che si basano su progetti concessi in licenza da ARM, una società britannica, possono essere trovati in quasi tutti gli smartphone di ultima generazione in commercio. Queste aziende hanno manifestato l’intenzione di limitare le vendite a Huawei, per paura d’infrangere il divieto americano.

Da parte loro, Qualcomm, ARM e altri progettisti di chip dipendono dalle fonderie per trasformare il silicio in microprocessori. Il più grande di questi è Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC). È una delle sole tre aziende in grado di produrre microprocessori all’avanguardia. Gli altri due sono Intel, che si concentra sulla creazione di chip da essa stessa progettati e la Samsung in Corea del Sud. Secondo gli addetti ai lavori, i processori che entrano in un iPhone sono tutti realizzati in un’unica struttura TSMC. E Taiwan, come il Giappone, è soggetta a terremoti. (La TSMC dice che le sue fabbriche di chip sono progettate per resistere ai terremoti più importanti).

Intel, Samsung e TSMC, a loro volta, si affidano a un gruppo di fornitori di beni strumentali specializzate per attrezzare le proprie fabbriche. Uno è ASML, un’azienda olandese. È l’unico produttore al mondo di apparecchiature di litografia che utilizza la luce “ultravioletta estrema”, che consente la produzione di transistor di dimensioni sufficientemente ridotte per la prossima generazione di chip tecnologicamente avanzati. ASML ha impiegato decenni e miliardi di dollari per far funzionare quella tecnologia così sofisticata. Le sue macchine da 180 tonnellate sono vendute per 120 milioni di euro (135 milioni di dollari) a botta. Intel, TSMC e Samsung ne hanno acquistato una certa quantità. SMIC, un produttore di chip cinese, ne ha ordinato una. Se SMIC o altre società cinesi fossero escluse dall’acquistarne qualcuna in più, l’ambizione cinese di diventare autosufficiente nei chip avanzati finirebbe veramente male, afferma Robert Castellano, un analista del settore.

Fatti coinvolgere in un programma

Poi c’è il software. Tre quarti degli smartphone del mondo, compresi molti prodotti da Huawei, utilizzano il sistema operativo mobile Android di Google. Il divieto americano significa che, sebbene Huawei mantenga l’accesso alla versione open-source di Android, Google ha dichiarato che non fornirà più all’azienda cinese i bit di proprietà, come l’app store e gli aggiornamenti di sicurezza. Ciò non danneggerà Huawei in Cina, dove questi servizi sono già bloccati. Ma lo farà in Occidente, dove ogni giorno i consumatori ne fanno uso.

L’Open-source non garantisce l’invulnerabilità. Alcuni pensano che Trump potrebbe voler vietare le esportazioni di tale software in Cina, come è stato a lungo il caso per alcuni programmi di crittografia. Senza programmi come il sistema operativo Linux o Kubernetes, uno strumento per gestire i carichi di calcolo, Alibaba non sarebbe mai potuto diventare il gigante del cloud computing con la più rapida crescita al mondo.

Tutti questi colli di bottiglia, e l’influenza diretta o indiretta che esercita l’America sulla loro formazione, rende allettante l’intransigenza di Washington per “armare la propria interdipendenza”, come ha scritto Henry Farrell della George Washington University e Abraham Newman della Georgetown University in un recente influente documento. L’America ha minacciato di tagliare le istituzioni finanziarie straniere dalla agile rete bancaria e dal sistema di compensazione del dollaro a coloro che fanno affari con paesi o entità che non gli piacciono. Il divieto nei confronti di Huawei si applica alle imprese straniere qualora almeno un quarto della loro tecnologia sia originaria dell’America (da qui la decisione di ARM di bloccare le licenze per l’azienda cinese).

Dopo il terremoto in Giappone, molte aziende si sono mosse per identificare i rischi nella loro catena di approvvigionamento e [contemporaneamente] cercando di scovare delle alternative, afferma Bindiya Vakil, capo di Resilinc, che mantiene un database di collegamenti tra fornitori monitorando le interruzioni. Ma è difficile creare nuove società high-tech. E farlo sarebbe costoso. Quindi il sistema rimane in gran parte invariato.

Con il divieto nei confronti di Huawei cambierà [lo scenario]? Molte aziende accelereranno gli sforzi per aggirare la Cina, ad esempio costruendo fabbriche in luoghi come l’India o il Messico. (La minaccia di Trump, la scorsa settimana, di intervenire pesantemente sulle tariffe relative alle importazioni messicane potrebbe costringerle a rivedere le loro intenzioni). Samsung ha già spostato la maggior parte della produzione di smartphone in Vietnam. Le ritorsioni della Cina potrebbero accelerare il processo. Quando essa nel 2010 tagliò le quote di esportazione per le terre rare, una serie di minerali poco noti che vengono utilizzati per i magneti e altri componenti elettronici, di cui il 70% è prodotto in Cina, ciò portò  rapidamente alla ricerca di fonti alternative e di materiali sostitutivi. Giorni dopo il divieto di Huawei Xi Jinping, il presidente della Cina, ha effettuato una visita molto pubblicizzata in una struttura di [lavorazione] delle terre rare.

Che risponda o no in natura, la Cina raddoppierà gli sforzi per diventare tecnologicamente indipendente. Huawei ha detto che presto rilascerà il proprio sistema operativo mobile per soppiantare Android. È probabile che il governo pompi ancora più denaro nell’industria dei chip del paese.

Gli ottimisti sostengono che l’interdipendenza sarà disarmata una volta che avrà raggiunto il suo scopo all’apice del conflitto sino-americano. Ma il danno è già stato fatto. Come dice Mr Shih, molte aziende pensano di non poter più fare affidamento sui fornitori cinesi. E i cinesi si rendono conto che l’America può usare la catena di approvvigionamento per condurre una guerra economica. I falchi di Washington e di Pechino possono sognare due “tecno-sfere” di influenza. Per le aziende tecnologiche globalizzate, il tutto appare loro come un incubo.

https://www.economist.com/business/2019/06/06/the-technology-industry-is-rife-with-bottlenecks

[1] https://ilponte.home.blog/2019/04/08/the-economist-uk-la-nuova-fase-che-segnera-il-futuro-delleconomia-mondiale-la-slowbalisation/  

 

Franco Gavio

Dopo il conseguimento della Laurea Magistrale in Scienze Politiche ha lavorato a lungo in diverse PA fino a ricoprire l'incarico di Project Manager Europeo. Appassionato di economia e finanza dal 2023 è Consigliere della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Dal dicembre 2023 Panellist Member del The Economist.

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