“In effetti, al liberalismo è stata girata la testa, ed è diventato l’opposto di ciò che fu quando emerse. E’ giunto il tempo di rimetterla al posto giusto.” Parrebbe una frase estratta da qualche pubblicazione alternativa di sinistra. Invece no, chi scrive è forse la bibbia del pensiero liberale: il The Economist.
In realtà, è da tempo che la pubblicazione di St. James Street non si trova più a suo agio in questa corrente interpretazione del liberalismo, benché non si sia mai seriamente avventurata nel manifestare una critica sistemica nei suoi confronti, al di là di qualche solitaria “punzecchiatura”. https://democraticieriformisti.wordpress.com/2018/04/06/loriginaria-fonte-della-disuguaglianza-post-moderna-il-buyback-lacquisto-di-azioni-proprie/
La svolta è avvenuta la settimana scorsa mediante la pubblicazione di un corposo articolo (long article), in cui prendendo spunto dalla brillante e chiara esposizione del quadro sistemico tra le diverse sfumature presenti all’interno del paradigma liberale, l’autore coglie l’occasione di documentarne le attuali storture. Differenti tonalità di pensiero, le quali in lontananza possono apparire quasi identiche, ma che con le lenti graduate del politologo, in alcuni casi, si rivelano contrastanti.
Scrive il The Economist:“Il liberismo nella sua migliore accezione dovrebbe preservare un delicato equilibrio tra quattro condizioni antinomiche”: 1) elitismo/democrazia; 2) imposizione di politiche dall’alto (top-down management)/auto-organizzazione; 3) globalismo/localismo; 4) tradizione filosofica “hard”, (il freddo utilitarismo di J. Bentham)/il suo opposto “soft”, il pensiero di A. de Tocqueville e il ragionato equilibrio di John S. Mill.
Elitismo versus Democrazia
Risulta vero che il pensiero liberale è sempre stato sospettoso nei confronti delle masse. Ne è valida testimonianza l’equilibrata stesura della Costituzione americana (Check and Balance) tra autorità di governo e popolo. Tuttavia, racconta l’autore, nel corso del 900, il liberalismo anglosassone è stato il promotore del suffragio universale e un fautore di un maggior ampliamento della democrazia elettiva. Purtroppo, “di recente le tensioni anti-democratiche tipiche del liberalismo si sono ricostituite. E’ ancora una volta [considerato] rispettabile per gli ambienti liberali affermare che il popolo è troppo stupido (alias poco lungimirante, razzista, sessista, nazionalista e bigotto) per prendere decisioni ragionevoli, per cui necessita che poteri supplementari vengano affidati a imparziali esperti. Il più grande motore dell’elitismo è l’Unione Europea.” Stigmatizza il The Economist, la causa dell’attuale insorgenza popolare continentale è dovuta a questa assolutezza elitaria dei tecnocratici europei, infatti essa non si è “spostata di un centimetro, allorché il Presidente della Repubblica Italiana proibì al nuovo governo di scegliere un ministro delle finanze euroscettico”.
Politiche decise dall’alto (Top-down management)
Assai meno corrosiva è la posizione assunta dall’estensore dell’articolo verso ciò che comunemente viene definito come “neoliberismo”, che egli lo traduce con l’espressione “elitismo tecnocratico”. In altre parole, si può essere liberali senza abbracciare questa sua accezione estrema, “ove si sostiene che la libertà di comprare e di vendere nel mercato è più importante che esercitare il diritto di voto ogni cinque anni”. Si ammette però che le principali istituzioni internazionali (Banche Centrali, FMI, WTO) svolsero un ruolo positivo nella crescita mondiale, limitando la demagogia degli eletti, sennonché, parimenti, questo elitismo tecnocratico è stato la causa di molti guai sia nell’ambito politico quanto in quello economico. Nel primo caso, risultò evidente nel momento in cui venne adottata la scellerata decisione americana d’introdurre in punta di baionetta regole e principi democratici nel M.O., con l’illusione che si potesse cortocircuitare all’interno di quelle comunità la storica fase “liberale”. L’epilogo fu uno scenario da incubo.
Nel secondo caso, il rovescio lo si deve attribuire all’insipienza della presunta ben pensante élite tecnocratica occidentale, circoscritta entro club esclusivi, che fece credere agli elettori l’indubbio e condiviso vantaggio della globalizzazione. “Non solo costoro fallirono nel riuscire a mantenere una stabilità macroeconomica, ma fecero anche fiasco nell’elevare complessivamente gli standard di vita”. Per dirla tutta: “essi ruppero il contratto” con i loro sostenitori, i quali si sentirono defraudati “di avere venduto i loro diritti democratici per un piatto di minestra”. Quindi, non c’è da stupirsi se questi invocano di voler “taking back control” del loro paese. Infine, è doveroso ricordare all’Unione Europea che la liberta di circolazione dei capitali e delle merci non necessariamente significa libertà di movimento delle persone. La somma finale di questa erronea visione del mondo fu la Brexit, la vittoria di Trump e l’insorgenza italiana.
Risulta non più procrastinabile, afferma il The Economist, ritrovare un corretto equilibrio tra piani alti e piani bassi del sistema: fare in modo che all’interno organi decisionali delle più celebrate istituzioni internazionali partecipino rappresentanti di rilevanti autorità locali (Sindaci, Governatori Regionali).
Globalismo versus Localismo
Il liberalismo in generale fu il promotore non solo dell’assoluta libertà di commercio, ma sostenne con forza l’idea che l’essere umano fosse dotato di diritti fondamentali universalmente considerati, contrapponendosi totalmente all’ideologia conservatrice, la quale arguì che “l’individuo sia una finzione e che la natura umana non sia altro che un prodotto del tempo e del luogo”. I processi d’internazionalizzazione e di globalizzazione furono l’apoteosi del pensiero liberale, governati dal potere egemonico prima Britannico, poi Americano, secondo cui le “regole universali rafforzano diritti universali”.
Sennonché, nella teorica liberale non mancano accenni indirizzanti a pregiare alcuni aspetti del nazionalismo, sia come processo di autodeterminazione dei popoli (Woodrow Wilson, Theodor Roosevelt), sia come monito verso un eccesso di astrattezza: “gli interessi della razza umana sono meglio serviti dando a ogni singolo uomo una specifica patria, piuttosto che cercare d’infiammare le sue passioni per l’intera umanità” (Alex de Tocqueville).
Infine, il Partito Liberale britannico si comportò nella sua storia come una formazione politica attraverso cui il localismo e l’internazionalismo viaggiavano di pari passo in perfetto equilibrio. Quando al suo interno il peso sul piatto della bilancia del secondo divenne eccessivo rispetto al primo, come si verificò nel precedente governo, il partito subì un netto ridimensionamento.
Nel caso specifico, il The Economist ci riporta al tema centrale di fondo attraverso cui si dovrebbe identificare uno spirito liberale. Ovvero, contrapporsi a un nazionalismo pericoloso e pregiudizievole, ma nello stesso tempo evitare di esprimere commenti insolenti, verso coloro che avversano una certa élite globalista, appellandoli: barbari, razzisti, xenofobi, fascisti e retrogradi. Non commettere l’errore di chi “cerca di rappresentare il governo come espressione del popolo, anziché il popolo come raffigurazione del governo”. Insomma, ribadisce l’autore, l’auto-organizzazione locale è un valore legittimamente confinato entro l’ampio paradigma liberale.
Considerato che “la maggior parte delle persone vive la propria vita nell’ambito locale e nazionale e non nelle sale d’attesa degli aeroporti” dedicarsi con maggior impegno a una rivitalizzazione di quelle comunità periferiche abbandonate, facendo si che i successi globali siano anche il motore dello sviluppo economico locale, così da creare un rapporto equilibrato in termini di ricchezza complessiva, darebbe luogo a un’azione anch’essa conforme ai principi del liberalismo.
Le libertà civili e politiche sono il terreno al di sopra del quale corrono le libertà economiche. Quando il Presidente Cinese Xi Jinping, patrocinatore di un dispotismo neo-imperiale, si attribuisce il compito di principale sostenitore della globalizzazione ricevendo il plauso da parte di molti attori economici, ciò ci dimostra quanto lo spirito liberale sia distorto, semplicemente capovolto nel rapporto tra mezzi e fini.
Il tecnicismo direzionale dall’alto versus le capacità auto-organizzative dal basso
La dottrina liberale nasce come incoraggiamento alla volontà individuale di affermazione. La libera competizione, la conduzione disciplinata e razionale dell’attività aziendale ne rappresenta alcuni dei suoi principali dogmi, anche se nel corso del 900 questa sua originaria tendenza evolvendosi ha prodotto grandi complessi manifatturieri e organizzate burocrazie urbane. Sennonché, l’attuale élite liberale manageriale, affascinata dalla razionalità tecnica, è giunta prossima al parossismo. “La sua giustificazione si focalizza sulla produttività: è solo facendo crescere la produttività che noi possiamo creare il surplus che contribuisce a rendere il nostro modo di vivere avanzato.” Ciò può corrisponde al vero, afferma il The Economist, ma non cadiamo nell’estremizzazione efficientista, ove “si trattano le persone come strumenti piuttosto che come fini in sé”. Considerare l’individuo come un ingranaggio del meccanismo è diventato assai comune nel linguaggio del “liberalismo manageriale”, il quale avvalendosi sempre più frequentemente della “misura statistica”, tende tanto ad autoassolversi quanto a promuovere i suoi obiettivi.
Le persone sono tutt’altro che oggetti, sono esseri umani dotati di una propria visione del mondo, di una loro dignità morale e soprattutto sono il concentrato di valide esperienze professionali, per cui sarebbe più proficuo ai fini dell’incremento della produttività se venissero resi maggiormente partecipi nel processo economico, anziché continuamente infastidirli con statistiche “ballerine” e in certi casi pretestuose.
Tradizione filosofica “hard” (Bentham) versus “soft” A. de Tocqueville
Nei due rimanenti capitoli l’autore sussume in chiave filosofico-politica alcuni argomenti già precedentemente discussi. Egli scrive che negli ultimi quattro decenni l’élite liberale scelse come linea di condotta culturale lo studio delle scienze “dure” (di calcolo), come l’economia a discapito di quelle “soffici” (impressive) come la sociologia o la storia. “Essa [élite] è molto più interessata nella quantità di cose che un individuo possiede in confronto alla qualità della vita che il singolo conduce”. Questa inclinazione per la “crudeltà” dei numeri secondo una logica presuntuosamente “scientifica” – l’utilitarismo di J. Bentham – ha completamente soffocato le molteplici attitudini e tendenze che sono positivamente disperse nella società umana, le quali sono gli anticorpi più resistenti per tutti coloro che perseguono politiche di massificazione. L’autore si rifà alla nota polemiche di A. de Tocqueville nei confronti di uno Stato che, attraverso il potere forte della sua burocrazia, sclerotizza e rende mediocremente uniforme qualsiasi società civile.
In conclusione il liberalismo deve ritrovare il suo equilibrio e questo ribilanciamento a discapito della attuale eredità utilitaristica di J. Bentham lo si deve ricercare nella visione organica grazie alla penna di due dei suoi più grandi artefici: J.M. Keynes e J.S. Mill. Il maestro di Cambridge disse chiaramente che “ bisogna considerare l’economia null’altro che un mezzo per centrare un determinato fine, e questo fine lo si deve individuare in una vita più agevole per tutti” e non esattamente il contrario come sta accadendo ora. Riguardo J.S. Mill, sottolinea il The Economist, dobbiamo prendere spunto dalla sua svolta democratica nella quale egli affermava che “il liberalismo deve ingaggiare la sua battaglia nei confronti dei suoi critici, in particolare il populismo e il marxismo, piuttosto che arrogantemente emarginarli. Il liberalismo necessita che riconquisti la sua umanità mediante una revisione dell’analisi utilitarista dei costi/benefici nella sua totalità e il problema della managerialità, incluso il suo freddo calcolo, nella sua specificità.”
Conclusioni
Arduo riassumere 22 pagine dattiloscritte, la cui stesura si avvicina maggiormente a un “short essay” rispetto a un “long article”, su di un argomento spinoso e complesso come il liberalismo. Ci sarebbero molte considerazioni da fare in merito a questa decisa presa di posizione dell’Economist, la quale “spiazza” persino le più moderate coloriture del progressismo di sinistra continentale. La prima, riguarda la certificazione di una completa rottura interna nei confronti dell’attuale pensiero dominante (il libero fondamentalismo di mercato). La seconda, più “politica”: uno scivolamento, se non addirittura un (cross-border), verso alcune tematiche tipiche (critica all’élitismo manageriale, riscoperta del municipalismo) di cui la rinnovata gemmazione labourista britannica pone all’interno del suo programma elettorale. https://democraticieriformisti.wordpress.com/2018/05/30/the-economist-uk-la-rivoluzione-morale-del-labour-party/ .
https://www.economist.com/bagehots-notebook/2018/06/12/some-thoughts-on-the-crisis-of-liberalism-and-how-to-fix-it?fsrc=scn/tw/te/bl/ed/?fsrc=scn/fb/te/bl/ed/somethoughtsonthecrisisofliberalismandhowtofixitliberalism