Gabriel Zucman
Da qualche settimana è tornata alla ribalta delle cronache la cosiddetta “web-tax”. Una iniziativa congiunta portata avanti da Germania, Francia, Italia e Spagna alla riunione dell’ECOFIN a Tallinn pochi giorni fa avrebbe portato ad una seria discussione su tale strumento. Il tema affrontato dalla web-tax riguarda ovviamente il tentativo di raggirare i metodi di elusione fiscale da parte dei colossi digitali, quali Facebook, Google, Amazon e Microsoft. Ma il tema dell’elusione fiscale a livello globale, tramite i paesi offshore, ha una origine ancora più antica, ed una base molto più ampia, della quale i colossi statunitensi rappresentano solo una parte, seppur considerevole. Uno degli studi più dettagliati su questo tema è stato portato avanti da Gabriel Zucman, i cui risultati sono contenuti nel suo saggio The hidden wealth of nations [2], a cui il titolo dell’articolo si ispira.
Prima parte: Descrizione del Fenomeno
In questa prima parte dell’intervento ci soffermeremo sul valutare lo stato dell’arte, cercando di capire le stime dei patrimoni offshore, di valutare l’ammanco che questi portano in termini di gettito fiscale, e di comprendere alcune tecniche di elusione. Nella seconda parte (che uscirà a breve in un secondo articolo) ci concentreremo sull’analisi delle possibili soluzioni, partendo dai limiti delle misure portate avanti in passato.
Lo stato dell’arte
Per inquadrare il problema nella sua giusta dimensione, Zucman elabora una stima dell’ammontare di capitali detenuti in Svizzera e negli altri paradisi fiscali, arrivando a calcolare nell’8% del totale dei patrimoni globali la quantità detenuta offshore. Nel dettaglio egli stima la suddivisione come segue:
6.900 miliardi € detenuto offshore (pari appunto a circa l’8% del patrimonio finanziario globale, stimato intorno a 87.000 miliardi €), di cui circa 2.100 miliardi € in Svizzera e 4.800 miliardi € in altri paradisi fiscali. Di questi 6.900 miliardi soltanto circa 1.400 miliardi € risultano dichiarati. La perdita totale in termini di gettito fiscale stimata si aggira intorno ai 170 miliardi €, così suddivisi: 110 miliardi € di imposte sul reddito, 50 miliardi € di tasse di successione, 10 miliardi € di imposte patrimoniali.
La parte detenuta offshore in Svizzera viene a sua volta stimata da Zucman essere suddivisa come segue:
Detentori di conti svizzeri:
• proprietari dalla UE: 1.200 miliardi € (Germania: 240 mld €, Francia 220 mld €, Regno Unito 130 mld €, Italia 130 mld €, Spagna 100 mld €, Altri: 380 mld €);
• proprietari dall’Asia: 200 miliardi €
• proprietari dagli USA: 60 miliardi €
• proprietari dal Canada: 40 miliardi €
• proprietari dall’America Latina: 200 miliardi €
• proprietari dalla Federazione Russa: 60 miliardi €
• proprietari Paesi del Golfo: 200 miliardi €
Investimenti
• Fondi di investimento Lussemburghesi: 700 miliardi €; Fondi di investimento Irlandesi: 200 miliardi €: Azioni globali (Statunitensi, ecc. ): 500 miliardi €; Obbligazioni globali: 500 miliardi €; Depositi, altro: 200 miliardi €
Abbiamo evidenziato due dati in particolare, poiché sono quelli che più colpiscono, a mio avviso, visto la loro natura:
1. il primo, che sottolinea come la maggior parte dell’ammontare di capitali offshore detenuti in Svizzera provengano da proprietari europei, sfatando così il mito che siano principalmente gli oligarchi russi o i dittatori africani a sfruttare maggiormente questa pratica. La cosa d’altro canto può anche essere giustificata da due fattori: da un lato, l’Europa è pur sempre il continente più ricco al mondo; dall’altro, il numero di proprietari europei è probabilmente maggiore di quelli russi e africani;
2. il secondo, che sottolinea la quantità elevata di fondi di investimento lussemburghesi e irlandesi, il che evidenzia la pratica, sviluppata specialmente in Lussemburgo, per la quale sono ormai i grandi fondi di investimento del Granducato a gestire i capitali detenuti in Svizzera, e non più i banchieri elvetici direttamente. Si pensi che il Lussemburgo risulta essere secondo solo agli Stati Uniti in termini di creazione di fondi comuni. Il motivo di questa tendenza si è sviluppata per via della totale assenza di tassazione in Lussemburgo sia sui dividendi incassati dal fondo sia su quelli distribuiti agli investitori (situazione peraltro identica anche in Irlanda). In Svizzera, invece, tali dividenti sono tassati al 35%, ed ecco dunque svelato il “mistero” della migrazione dei fondi da Ginevra verso il Granducato e Dublino.
Va notato che le stime ottenute da Zucman rivedono al ribasso computazioni di altri economisti, tra le quali quelle di James Henry (si veda [1]), il quale aveva valutato un totale che oscillasse tra i 21mila e i 32mila miliardi € di patrimoni offshore. Nel suo saggio, Zucman spiega dettagliatamente due principali motivi per cui ritiene tale stima eccessiva. Allo stesso tempo, riconosce come sia impossibile dare una stima precisa di tale ammontare, ma tende ad escludere che essa possa superare una quantità superiore ai 10mila miliardi €.
La stima relativa agli ammanchi in termini di gettito fiscale annuale nelle diverse macro-aree economiche portano alle seguenti cifre: Europa 70 miliardi €, USA 30 miliardi €, Asia 31 miliardi €, America Latina 19 miliardi €, Africa 13 miliardi €, Canada 6 miliardi €, Russia 1 miliardo €. Per lo specifico caso italiano, considerando la percentuale di patrimoni offshore stimata, si può valutare una perdita tra i 5 e i 7 miliardi €.
Relativamente al punto 2, la cosa che principalmente infastidisce è che Lussemburgo e Irlanda, Paesi che hanno accresciuto fortemente la loro natura offshore negli ultimi anni, siano direttamente appartenenti alla UE (e addirittura alla zona euro). Queste storture caratterizzate da regimi fiscali agevolati vanno esattamente nella direzione opposta a ciò che sarebbe davvero necessario per avanzare verso una maggiore integrazione europea, ovvero la convergenza dei regimi fiscali e della tassazione, condizione necessaria tanto per una equa ridistribuzione delle ricchezze all’interno della UE, quanto per un serio contrasto alle pericolosissime “aste al ribasso” sulle tassazioni marginali superiori, le quali incentiverebbero ancor più pratiche di elusione fiscale da parte dei detentori di cospicui capitali, a danno dei sistemi di welfare e indirettamente anche dei piccoli e medi risparmiatori.
Dedichiamo infine un ultimo breve paragrafo alla analisi delle tecniche di elusione delle società multinazionali, e ad alcune relative stime quantitative. Le tecniche per far apparire i propri profitti in Paesi a tassazione agevolata sono essenzialmente due: la prima consiste nel sovraccaricare di debiti le filiali site in Paesi con elevata tassazione, attraverso dei prestiti infragruppo (tecnica che tuttavia risulta facilmente rilevabile); la seconda consiste invece nella manipolazione dei prezzi di trasferimento, ovvero i prezzi a cui le diverse filiali si scambiano i loro stessi prodotti. La tecnica consiste nel vendere a tariffe elevate prodotti e servizi da Paesi offshore e comprarli da filiali site in USA o altri Paesi ad elevata tassazione; in questo modo si possono facilmente alzare gli utili nelle prime ed abbatterli nelle seconde.
Secondo le stime di Zucman, queste tecniche di elusione permettono ai colossi digitali statunitensi di eludere circa 130 miliardi di dollari di passività fiscali. Interessante è inoltre anche la stima delle passività versate dalle multinazionali in termini percentuali; esse rivelano che le aliquote effettive pagate negli USA è passata dal 45% degli anni ’50, al 30% degli anni ’80, per poi precipitare al 15% nel 2010 (si veda [2], Fig. 9, p. 124).
I danni derivanti dalle varie manipolazioni contabili si ripercuotono in termini negativi, e talora dannosi, anche sui parametri macroeconomici. Si pensi ad esempio al caso irlandese, in cui il surplus commerciale pari al 25% del PIL è gonfiato fortemente proprio dallo stratagemma di importazione a prezzi bassi ed esportazioni a prezzi elevati mostrato sopra. Tali pratiche tendono dunque ad avere effetti nefasti non solo dal punto di vista dell’equità e della correttezza fiscale, ma anche sulla stabilità economica; alla base infatti di quest’ultima vi sono le analisi dei parametri macroeconomici di crescita, occupazione, diseguaglianza, ecc. dei vari Paesi, che se alterati artificialmente possono contribuire in maniera significativa ad impedire una maggiore stabilizzazione del sistema economico e finanziario.
Seconda parte: Le Regole attuali e gli errori del passato
Uno dei primi e più incisivi interventi fatti in materia fu sicuramente rappresentato dal FACTA (Foreign Account Tax Compliance Act), voluto nel 2010 dalla Presidenza Obama. La legge prevedeva lo scambio automatico di dati tra le banche straniere e l’International Revenue Service, nonché una sanzione pari al 30% sui dividendi e sugli interessi attivi versati dagli Stati Uniti in caso di mancata ottemperanza. Pur con diversi limiti, tale provvedimento fu un deterrente sufficiente per portare alla cooperazione molti dei paradisi fiscali (quantomeno a livello formale). Il FACTA ha avuto il pregio di superare il precedente sistema in vigore, il quale si basava su scambi di informazione solo su richiesta. Ovviamente molte problematicità sono rimaste a causa dell’opacità finanziaria e della capacità di eludere le forme di controllo, ma sarebbe sbagliato non riconoscere il buon passo avanti, specie considerando che questo era probabilmente ritenuto un’utopia ancora una decina di anni fa.
Ciò insegna anche una cosa non secondaria, ovvero come a volte, nel giro di brevi lassi di tempo, si possano compiere dei decisi miglioramenti in materia, e che dunque la questione risulti essere maggiormente a livello di decisionismo politico, piuttosto che relativa ad altri livelli più giuridici o finanziari. Per contro l’omologo del FACTA adottato dall’UE, la cosiddetta Direttiva Risparmio adottata a partire dal Luglio 2005, si è rivelata abbastanza fallimentare, e il motivo principale è stato proprio l’assenza di misure coercitive. Più nello specifico tre difetti principali vengono evidenziati da Zucman:
1. La Direttiva prevede un regime particolare per Lussemburgo e Austria, il che mina fortemente la credibilità e la possibilità di agire in maniera davvero coordinata a livello di Unione Europea, vista tale asimmetria. Nella fattispecie le banche lussemburghesi e austriache possono semplicemente decidere di tassare al 35% gli interessi anziché comunicare i dati. In tal modo contribuenti corretti si troveranno a pagare più tasse, vittime di escamotage assolutamente leciti;
2. Altro problema è che tale imposta del 35% si applica solo ai conti detenuti a nome dei proprietari, ma non a società di comodo, trust o fondazioni;
3. Infine, la Direttiva si applica agli interessi attivi, ma non ai dividendi.
Non serve dunque scomodare premi Nobel per l’economia per comprendere come l’effetto maggiore della Direttiva sia stata quella di accentuare ancor più la tendenza a trasferire conti verso società di comodo. Tale tendenza peraltro era iniziata già negli anni ’90, prima della Direttiva, ed aveva portato il 25% di conti con proprietari europei contro più del 50% detenuti in società di comodo, con un rapporto 1:2. Rapporto che dal 2005 (anno di entrata in vigore della Direttiva, appunto) è però schizzato a 1:6, triplicando in meno di dieci anni.
Cosa fare? Quattro passi (da gigante?)
Veniamo dunque ad affrontare le possibili soluzioni. I quattro passi che analizzeremo possono essere riassunti come segue: i dazi-sanzione, la creazione di un catasto finanziario mondiale, l’introduzione di una tassa patrimoniale globale, e una imposta sulle società del XXI secolo. Questi quattro passi non hanno tutti la stessa lunghezza, ed alcuni hanno sicuramente tassi di realizzabilità più alti, mentre altri sono stati criticati perché irrealistici. Ad esempio, la proposta di una tassa patrimoniale a livello globale è stata proposta anche da Thomas Piketty in [2], ed è stata oggetto di numerose critiche, non tanto sulla sua validità teorica, ma sulla sua praticabilità (come ad esempio da Joseph Stiglitz e Yanis Varoufakis). Non ci addentreremo nel dettaglio, ma personalmente tendo a concordare con tali critiche riguardo alla effettiva realizzabilità di una imposta patrimoniale globale anche nel medio periodo. Ciò premesso analizziamo ora brevemente le varie proposte.
La prima viene dall’esperienza che i metodi coercitivi siano la modalità che permette di ottenere i passi più decisi nella giusta direzione. Oltre a quelli accennati nel paragrafo precedente, un esempio che ci consegna la storia è il caso di Montecarlo del 1963, quando De Gaulle minacciò pesantissime ripercussioni sul Principato nel qual caso non avesse allineato il regime fiscale per i cittadini francesi all’interno nella loro giurisdizione; i risultati furono immediati, e da allora i cittadini francesi residenti a Monaco sono soggetti agli stessi trattamenti fiscali che avrebbero in Francia.
Un altro aspetto che abbiamo implicitamente toccato sopra è anche il tema dell’elusione. A tal riguardo, un metodo per ridurre lo spazio di elusione sarebbe quello di colpire i beni e i servizi del commercio, anziché le transazioni finanziarie. Un Paese come la Svizzera, al centro dell’Europa, non potrebbe certamente rinunciare ai suoi scambi con i Paesi confinanti per sostenere la propria economia. Ovviamente l’odierno intreccio di rapporti commerciali impedisce ad un singolo Paese di poter esercitare una pressione tale da scatenare un effetto-De Gaulle come nel 1963. Ed è per questo che l’approccio più efficace è dato da una coalizione di Stati.
A tal riguardo esistono due possibili soluzioni: optare per coalizioni più grandi, sicuramente più forti ma più instabili e meno compatte, oppure su coalizioni più piccole, forse meno forti ma sicuramente in grado di muoversi con maggior senso comune. Nell’analisi portata avanti da Zucman, egli predilige la seconda opzione, mostrando anche come coalizioni formate anche solo da tre Paesi possano già ottenere effetti importanti. In particolare, sempre per rimanere sul caso svizzero, una coalizione formata da Germania, Francia e Italia potrebbe ottenere risultati interessanti con una imposizione di dazi pari al 30% alle merci importate dalla Svizzera (tali dazi non contravverrebbero le regole dell’OMC, per il quale viene ammesso un dazio per il recupero dell’evasione fiscale). Ovviamente l’obiettivo è quello di creare un deterrente abbastanza forte per portare i Paesi offshore a collaborare, non ti ricreare una situazione di alto protezionismo, che alla lunga non giova all’economia generale. Ma tuttavia la minaccia non deve essere troppo blanda da impedire eventualmente l’applicazione, anche solo momentanea di tali dazi, sino a quando il Paese in questione non assuma appunto un atteggiamento collaborativo.
Ovviamente, questo metodo dei dazi-sanzioni non può funzionare coi Paesi all’interno dell’UE, come appunto il Lussemburgo. Abbiamo già accennato nella prima parte quanto il tema del Lussemburgo sia problematico prima di tutto per un motivo simbolico, essendo un Paese membro dell’Eurozona; come si fa infatti ad avere una credibilità seria riguardo al tema della lotta all’evasione fiscale da parte dei colossi digitali con all’interno nel proprio sistema monetario un’area che incentiva così spudoratamente pratiche di concorrenza sleale? Nel suo saggio Zucman esegue anche un’analisi dello sviluppo dell’economia del Granducato dal 1970 ad oggi, mostrando come il peso dell’industria sia crollata dal 45% degli anni Settanta a meno del 10% odierno, mentre viceversa il settore finanziario sia passato dal 2% ad oltre il 40%. Il Granducato ha praticamente avviato un’operazione di svendita commerciale della propria sovranità nazionale. Ad ulteriore dimostrazione di ciò, si pensi che il Prodotto nazionale lordo rappresenta solo il 65% del Prodotto interno lordo, cosa dovuta al fatto che una larghissima fetta viene utilizzata per pagare fondi di investimento e holding.
Veniamo ora al secondo passo, ovvero la creazione di un catasto mondiale. Esso rappresenta il passo decisivo per avere quel necessario e potente strumento di verifica, nonché anche un efficace strumento per la stabilizzazione finanziaria. Verosimilmente una raccolta dati del genere potrebbe essere messo in atto dal Fondo Monetario Internazionale (FMI). Si noti che, per quanto possa apparire come qualcosa di titanico, un catasto siffatto non risulterebbe un’impresa così ardua; si pensi infatti che simili registri esistono già a livello nazionale o federale, magari parziali. Esempi concreti sono il Depository Trust Company statunitense, la Euroclear belga e la Clearstream lussemburghese. Come accennato, l’FMI avrebbe tutte le capacità tecniche e la forza politica per attuare un programma di raccolta dati del genere, ma verosimilmente solo sul medio termine. Sul breve periodo, e come passaggio intermedio, si potrebbero creare dei registri regionali, come ad esempio un catasto europeo gestito dalla BCE. Importante infine che un tale catasto sia anche esteso ai titoli derivati, possibile probabilmente solo in un secondo passaggio, magari sul medio lungo periodo, ma essenziale per evitare la conversione massiccia in warrant o similari. Questo, insistiamo, sarebbe essenziale non solo come strumento di verifica e di lotta all’elusione fiscale, ma soprattutto per la stabilizzazione finanziaria.
La tassa patrimoniale globale sarebbe il conseguente passaggio successivo e in qualche modo complementare al catasto mondiale. Abbiamo già accennato sopra alla difficile realizzabilità di una manovra del genere, per motivazioni che si ritengono prevalentemente di natura politica. Per fare un parallelo, una tassa patrimoniale globale potrebbe avere la stessa difficoltà di realizzazione del sistema monetario mondiale proposto da Keynes tra il 1940 e il 1945: il Bancor. La sua validità teorica e di strumento utile alla stabilizzazione finanziaria era fuori di dubbio. Il problema era che si scontrava con l’interesse egemonico statunitense, il quale invece preferì creare il sistema di Bretton Woods, incentrato sul dollaro. Allo stesso modo una tassa patrimoniale mondiale sarebbe uno strumento utile, sia per la trasparenza fiscale, sia per la stabilizzazione finanziaria. Ma non serve essere strateghi di alto livello per comprendere come essa si scontrerebbe con diverse volontà all’interno dei meccanismi politici, economici e finanziari a diversi livelli.
Ciò detto, la proposta di Zucman sarebbe quella di una tassa globale sul patrimonio pari allo 0,1%. Questo potrebbe portare anche un incentivo per recuperare la somma trattenuta dalle autorità fiscali del FMI da parte del cittadino di una certa nazione, il quale dovrebbe dichiarare tale patrimonio, a tutto vantaggio della trasparenza. Altri indubbi fattori positivi sarebbero che da un lato si disincentiverebbe la nascita di fondazioni, società di comodo e presta-nomi vari, e dall’altra si potrebbe consolidare e rafforzare la sovranità fiscale delle singole Nazioni, poiché verrebbe disincentivata la competizione a ribasso sulle aliquote, che rappresenta oggigiorno forse la più pericolosa minaccia a livello di tenuta fiscale per le finanze pubbliche.
Infine veniamo all’imposta sulle società del XXI secolo. La proposta di Zucman ha alla base un’idea precisa: calcolare gli utili delle società su base mondiale e poi ripartirli tra i diversi Paesi con una formula che combini fatturato, manodopera e capitale. I vantaggi di un tale sistema sarebbero chiari ed immediati: una società non avrebbe più alcuna necessità di manipolare i prezzi di trasferimento, o quantomeno perderebbe i principali incentivi a farlo. La domanda che sorge ovviamente riguarda la realizzabilità di una tale imposta. Diversamente dalla tassa patrimoniale globale, l’imposta sulle società proposta ha un tasso di realismo decisamente più elevato. Basti pensare infatti che una simile imposta esiste già, ad esempio, degli USA: gli utili vengono calcolati a livello federale, e poi redistribuiti ai singoli Stati, i quali mantengono quindi la loro “sovranità” nel decidere le aliquote, senza generare competizioni al ribasso. La proposta della Commissione all’UE, nota come CCTB (Consolidated Corporate Tax Bases) si basa su un meccanismo simile. L’unico difetto è che per il momento, il piano proposto è facoltativo, nel senso che spetta alla singola società decidere se aderirvi o optare per le imposte nazionali esistenti. Il primo decisivo passo sarebbe rendere obbligatoria l’adesione a CCTB.
Giorgio Laguzzi (Akademischer Rat presso Albert-Ludwigs-Universitaet Freiburg)
Bibliografia
1. J.S. Henry, The prince of offshore revisited. Tax Justice Network, Luglio 2012. (Available at: http://piketty.pse.ens.fr/files/HenryTJN2012.pdf)
2. G. Zucman, The hidden wealth of nations, University of Chicago press, 2013.
3. T. Piketty, Il Capitale del XXI secolo, Bompiani, 2014